Recensione: Witchcraft - Nucleus (2016)

I Witchcraft sono uno dei miei gruppi favoriti nell'ondata di revival di un certo tipo di hard rock anni '70, assieme ai Graveyard, e così aspettavo con ansia la loro nuova uscita discografica, a distanza di quattro anni dal precedente Legend. Ed era tanta l'ansia che... me lo sono perso! Infatti il disco è uscito a Gennaio e solo in questi giorni sono riuscito a recuperarlo.
Iniziamo subito con un accenno alle recenti traversie della band, che ha visto l'abbandono praticamente di tutti i membri, eccetto il deus ex machina Magnus Pelander che, per l'occasione, ha dovuto rinnovare totalmente la line up, con l'obiettivo di continuare l'avventura dei Witchcraft. E così registriamo il ritorno del leader alla chitarra, oltre che alle parti vocali, e il ridimensionamento a tre elementi, i classici del rock, chitarra, basso (Tobias Anger) e batteria (Rage Widerberg), il più tipico dei power trio.
Documentandomi un po' in giro nel web, sono incappato in recensioni che definire entusiastiche sarebbe riduttivo, soprattutto in ambito metallaro, genere a cui per me non possono essere ascritti i precedenti lavori della band; e il motivo non è difficile da comprendere, Nucleus, fin dall'iniziale Maelstroem suono molto più pesante, a tratti monolitico, specie se paragonato ai primi lavori, epico e vanta (per modo di dire) una produzione molto più patinata, che poco spazio lascia ai suoni quasi da cantina che tanto mi avevano fatto amare i loro primi album.
Se finora i numi tutelari dei Witchcraft andavano rintracciati in quell'hard rock seventies che molto doveva al blues nelle strutture dei brani e degli assoli, specie le leggende scandinave dei November e i Jethro Tull, ora siamo più dalle parti dei Black Sabbath, dei Pentagram, in puro territorio doom, quindi. Purtroppo, a mio modo di vedere, il risultato non è dei migliori, e il lavoro risulta di difficile assimilazione, a tratti troppo pesante e pretenzioso, specie nei chilometrici episodi di Nucleus e Breakdown, mezz'ora in tutto, sebbene non privi di momenti da ricordare e grande perizia strumentale. Più felice la tradizionale The Outcast, che rimanda a certe cose del passato e con la voce di Pelander comunque sempre da brivido. Ottime anche Theory Of Consequences e An Exorcism Of Doubts, che rimandano pesantemente ai Sabbath più oscuri, mentre il resto del lavoro si arena su pezzi un po' riempitivi, caratterizzati da un suono della chitarra pesantemente metal.
In conclusione, almeno per i gusti di chi scrive, un disco che segna una decisa involuzione.

Voto: 5.5

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