Orville Peck - Pony (2019) Recensione
Nell’epoca liquida e di infatuazioni usa e getta da social non ci sono più i buoni vecchi casi del momento. Altrimenti, ne siamo sicuri, Orville Peck sarebbe il caso di questa prima parte del 2019.
Spontanea
o meno che sia – e almeno qui interessa più il risultato del gossip – l’immagine
di Orville risulta congegnata davvero perfettamente. Gran parte dell’efficacia sta nel corto circuito cognitivo causato
dalla commistione di un mondo, quello dei cowboy, che più macho e sessista non
si potrebbe, con chiarissime inflessioni gay friendly. Una sorta di Village
People in salsa alt country e più seria.
Ovviamente,
se ne stiamo qui a parlare, oltre l’accattivante immagine si cela molto di più.
La voce, innanzitutto, di Orville Peck: profonda, duttile e mai sopra le righe.
Un mix letale tra Elvis Presley e Johnny Cash. Poi la musica. L’abbiamo
definita alt-country, ma le atmosfere a cui si rende omaggio in Pony sono molte
di più. La scrittura, malinconica e con un immancabile fondo di tristezza –
anche negli episodi più disinvolti – ricorda Morrissey, ma a me è venuto in
mente anche John Grant, specie nel periodo degli Czars; gli arrangiamenti
parlano di base il linguaggio del country, con tante di chitarre twangy,
tuttavia non mancano suggestioni più europee, dallo shoegaze alla post wave
inglese.
E,
soprattutto, le canzoni. In Pony sono presenti alcuni pezzi che rimarranno
nella storia del 2019. L’apertura di Dead Of Night, vero classico senza tempo che avrebbero
potuto cantare indistintamente Elvis, Johnny Cash, Roy Orbison o Chris Isaak.
Sarebbe stato in ogni caso un capolavoro.
L’improvvisa
accelerazione di Buffalo Run, quasi da rave up in stile Yardbirds. La quasi
post wave di Queen Of The Rodeo; le ballate troppo classiche per essere vere di
Kansas e Roses Are Falling. Kansas sembra uscita – letteralmente grazie agli
effetti sonori – da una vecchia radio montata su una Chevy del ’57, Roses Are
Falling pare quasi un plagio dell’immortale Sleep Walk di Santo & Johnny,
con l’aggiunta del cantato.
Take
You Back è un altro passaggio ad alto tasso di country, con tanto di parte
fischiettata. Big Sky e Hope To Die roprendo no il discorso di Dead Of Night e
soprattutto nel caso della prima, siamo di fronte almeno ad un altro
capolavoro.
Pony
di Orville Peck è un disco che si lascia ascoltare a ripetizione, che lascia
soddisfatti e con un’immediata curiosità per il seguito.
Mentre
tutti sono distratti dall’ennesimo “capolavoro” di Bruce Springsteen, l’America
più bella e dolente ce la mostra questo misterioso canadese.
Uno
dei dischi dell’anno.
Voto:
8.5
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