Io la conoscevo bene (1965) - Recensione


Vengono le lacrime agli occhi, e anche un po’ i nervi, a pensare che nel 1965 in Italia si giravano film come Io la conoscevo bene


E a pensare che all’epoca Antonio Pietrangeli non era nemmeno ritenuto la punta di diamante del nostro cinema, tanto che il critico Rondi de Il Tempo, poteva permettersi, in un clamoroso attacco di miopia cinematografica, di usare queste parole per recensire la pellicola: “Purtroppo queste intenzioni non sono state adeguatamente servite né dal testo, né in molti casi dalla regia.”
Ebbene, questo film riuscito a metà nelle parole del critico, è uno dei massimi capolavori del cinema italiano, giusto per fermarci ai nostri confini; tanto da essere stato inserito nei 100 film italiani da salvare.
Pietrangeli era un regista particolare all’interno della scuola della commedia all’italiana; suo un certo gusto per la polemica e per la critica sociale che non sempre si riscontra in maestri più celebri e celebrati. E anche una certa mano a livello tecnico ed estetico, come si evince da alcune inquadrature spericolate e ancora oggi modernissime.

Io la conoscevo bene è la parabola di una ragazza di campagna – ma questo si scopre avanti nel film – che cerca il proprio riscatto nella vita e nel successo della grande metropoli, una Roma in pieno boom economico, superficiale e resa senza pietà nel suo squallore post moderno.
Adriana, interpretata da una Stefania Sandrelli meravigliosa, forse mai più così in parte, passa di esperienza in esperienza cercando non si sa bene cosa – e pare non lo sappia nemmeno lei – venendo di volta in volta illusa, sfruttata, rivoltata come un guanto e restituita alla sua ribellione naif, da una serie di personaggi sempre più squallidi. Un gestore di negozi di estetista, che le permette di vivere nel retro dell’attività in cambio di favori sessuali a cui Adriana si presta con rassegnazione, invocando solo un po’ più di gentilezza; una serie di ragazzi per cui prende una “scuffia” via l’altra, che la sfruttano come passatempo in attesa di quella giusta; un rabberciato talent-scout, interpretato da un favoloso Nino Manfredi, l’attore famoso – Enrico Maria Salerno – e quello sul viale del tramonto – Ugo Tognazzi in una delle sue macchiette più riuscite – il patetico Baggini che, per elemosinare un briciolo di celebrità, cerca di farle da ruffiano. Perfino il garagista, un imberbe Terence Hill, gentile e onesto, alla fine cede sfruttando l’apatica disponibilità della giovane; la pseudo amica del bel mondo che la fa abortire in casa, praticamente obbligandola. Unico personaggio positivo è il pugile suonato – un grandissimo Mario Adorf – che offre uno squarcio di poesia tenendole compagnia dopo l’ennesima delusione, senza chiedere nulla in cambio.
Sono gli anni del boom, ma anche quelli di Bianciardi e della critica al capitalismo sfrenato e ai falsi bisogni, e Adriana impersona perfettamente queste contraddizioni. Vuole diventare una star, ma non perché ne abbia la voglia o le capacità, semplicemente perché una certa visione della società sembra imporle quel modello di felicità. Un modello cui Adriana sembra aderire più per inerzia e pigrizia, che per reale appartenenza. Il suo personaggio è tratteggiato perfettamente dallo scrittore con cui intrattiene una breve relazione: tutto le scivola addosso e sente solo il bisogno di avere cose – e amanti – sempre nuovi, pur di sfuggire al fatale incontro con sé stessa. Riflessioni quantomai attuali, purtroppo.
Ma attenzione a liquidare Adriana come personaggio monocorde e negativo; dietro la sua apaticità e la sua mancanza di un codice morale, Pietrangeli adombra una estrema sensibilità, che sublimerà nel gesto estremo che concluderà la sua parabola, nella presa d’atto che la ribellione al proprio destino è sempre inutile. La società è colpevole di spingere Adriana a cercare ideali sempre più futili, ma è anche il breve intermezzo in cui si reca nella casa natìa, a gettare luce sulla sua vicenda. Una madre anaffettiva e bigotta, che le rimprovera il suo tentativo di smarcarsi dal ruolo femminile a lei destinato e che obbliga la sorella – quella sorellina a cui Adriana sembrava aggrapparsi come all’unico bel ricordo – alla vita monacale sancendone, chissà, la malattia che la porterà via. Una famiglia da cui fuggire, insomma, ma che continua a pesare coi suoi moralismi e sensi di colpa anche nella moderna vita nella metropoli.
Un ruolo fondamentale lo recita la colonna sonora, lo score originale di Piero Piccioni e le tante canzoni che la protagonista ascolta al giradischi e che spesso hanno il potere di cambiare, più che di accompagnare, i suoi stati d’animo.
Cosa resta allo spettatore moderno di Io la conoscevo bene? L’amarezza per un personaggio tanto moderno che non è difficile da traslare nell’oggi su un qualsiasi personaggio da reality, in cerca della fama per la fama e non per un reale fuoco sacro per l’arte. La tristezza per la prematura fine di Pietrangeli, morto annegato appena tre anni dopo, ma anche di quello straordinario cinema. La straordinaria sequenza in cui, per l’unica volta, Adriana incontra sé stessa, all’improvviso, e piange rigando il volto col mascara sciolto e quella finale, con la soggettiva che anticipa di qualche anno Dario Argento. E, per chi vuole, la ricerca delle citazioni nel canzoniere dei Baustelle, che più volte hanno preso spunto dall’iconica pellicola, a partire da Perché una ragazza d’oggi può uccidersi, coi versi “Noi la conoscevamo bene”.

Voto: 9

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