Il Commissario Pepe (1969) - Recensione
La filmografia italiana tra gli anni ’50 e ’70 è uno sterminato magazzino di pellicole di grande qualità, spesso sconosciute ai più.
Sì, perché se tutti conosciamo i grandi capolavori della
commedia all’italiana o certi episodi del cinema di denuncia, alcuni film, di
grandissima qualità, sono stati consegnati all’oblio del tempo. Un esempio è Il
Commissario Pepe, quinta fatica di un regista destinato a ben altri allori,
Ettore Scola. Episodio sicuramente minore nella filmografia del maestro, Il
Commissario Pepe è tuttavia un lavoro godibilissimo, che sfoggia un Ugo
Tognazzi nel pieno della maturità, in una delle sue interpretazioni più misurate
e riuscite. Ma anche la regia, che strizza l’occhio all’estetica pop del
periodo, è ben calibrata, e le interpretazioni dei tantissimi caratteristi sono
spesso da antologia. Una menzione a parte per il personaggio dell’anarchico
mutilato di guerra Parigi, interpretato da Giuseppe Maffioli; una spina nel
fianco tanto fastidiosa quanto a tratti toccante.
Il soggetto, tratto dall’omonimo romanzo di Ugo Facco DeLagarda, vede al centro della vicenda appunto il Commissario Pepe, onesto
funzionario, progressista e di vedute aperte, bonario con i personaggi ai
margini della società e riservato nel portare avanti una storia d’amore che
preferisce mantenere segreta. L’ambientazione è quella dell’opulento nord est –
la pellicola è girata a Vicenza, che però non viene menzionata – dove il fuoco
cova sotto la cenere di una banalità borghese quasi ostentata. Ed ecco così il
commissario trovarsi per le mani un’inchiesta sui costumi sessuali dei suoi
concittadini, tanto morigerati nelle apparenze quanto pronti alle più svariate
perversioni se lontani da occhi insìdiscreti. Scola si tiene ben lontano dal
giudicare, e così il riuscitissimo personaggio di Tognazzi. I pesci che si
impigliano nelle reti dell’indagine sono talmente grossi – la sorella di un
collega, la figlia del prefetto, una suora, una nobildonna e un conte figlio di
industriali – che le alte sfere consigliano Pepe di chiudere un occhio. Almeno
sui nomi altisonanti, per far pagare le colpe ad alcuni poveri cristi rimasti invischiati
a loro volta; compresa la compagna di Pepe, fotomodella a Milano per servizi osè.
Alla fine il commissario opterà per insabbiare il tutto, più che altro per
tutelare i più deboli e chiederà il trasferimento. Un finale amaro, in sintonia
con una storia agrodolce.
Se il film è molto godibile e le interpretazioni tutte degne
di menzione, qualche macchietta di troppo appesantisce un po’ l’andamento della
pellicola. Da citare la particolare trovata che vede Tognazzi immaginare alcune
sue reazioni – quelle che per motivi di opportunità non può permettersi – in curiosi
sogni ad occhi aperti.
Il Commissario Pepe, moderno e malinconico personaggio che
finisce per essere stritolato forse, ma non vinto, da un sistema ipocrita e
marcio, è uno dei più riusciti di Tognazzi. Lontano dagli istrionismi un po’
sopra le righe di altri film, il grande attore tratteggia con maestria la
figura di un perdente, la prima forse di tanti altri nella filmografia di
Scola, con grande dignità e sentimento.
Una pellicola da riscoprire.
Voto: 7
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