Avvistamenti: Ray LaMontagne: Ouroboros (2016)



Oggi, oltre a presentarvi il nuovo album di Ray LaMontagne, voglio svelarvi un piccolo trick per districarsi nel mare di recensioni che intasano la rete in lungo e in largo, basato sull'esperienza. Quando vedete che un disco mette d'accordo tutti, e tutti immancabilmente ne parlano bene, tenete i sensi all'erta, potreste trovarvi di fronte al capolavoro(difficile, ma possibile), oppure semplicemente vi trovate di fronte a una massiccia campagna pubblicitaria; allo stesso modo, se tutti parlano male di un lavoro, è molto probabile che il lavoro stesso sia una boiata tremenda, come potrebbe anche darsi che siano tutti d'accordo per altri e più oscuri motivi. Ma il momento in cui dovete rizzare le antenne è quando leggete ora la stroncatura più impietosa, ora le grida "capolavoro!" salire al cielo. Cosa che mi è per l'appunto accaduta leggendo qualcosa sul nuovo di Ray LaMontagne, prima una stroncatura(4/10) su una rivista che apprezzo, poi il massimo dei voti su un sito di recensioni; a quel punto troppa è stata la curiosità di giudicare con le mie orecchie e, unita al fatto che LaMontagne da queste parti è sempre stato apprezzato nonostante la parziale delusione di Supernova, che mi sono subito procurato questo nuovo Ouroboros.
Innanzitutto il disco è spiazzante, specie se siete rimasti all'idea del LaMontagne barbuto figaccione, che agli inizi degli anni zero sussurrava con vocione rauco delicate ballate folk, che mischiavano sapientemente atmosfere bucoliche con screziature country e strizzate d'occhio al mainstream. Qui, e c'era già qualche accenno in Supernova, il linguaggio è quello del prog psichedelico più delicato e bucolico degli anni '70, dalle parti dei Pink Floyd più rilassati e agresti del periodo. L'impostazione stessa del lavoro è quanto di più retrò e prog si possa immaginare, a partire dalla divisione in due parti, come ai tempi del vinile, composte di quattro movimenti per "lato".
L'attacco di Homecoming mette subito le carte in tavola, oltre otto minuti in cui si dipana una ballatona di folk psichedelico che segnerà la cifra di tutto l'album; si prosegue con la parte più movimentata, Hey No Pressure dal solido riff anni '70, ma anche il pezzo più radiofonico del lotto, e l'accoppiata The Changing Man e While It Still Beats, i pezzi più duri del lotto, con chitarre a tratti più abrasive.
La seconda parte si apre con In My Own Way, quanto di più floydiano potreste immaginare, con una splendida parte di chitarra elettrica dal suono più che mai pulito e rotondo. Si prosegue sulla stessa linea con Another Day, altra ballata molto bucolica che sfocia in A Murmuration Of Starlings, strumentale da brivido che anticipa la chiusura, fin troppo veloce, di Wouldn't It Make A Lovely Photograph.
Un album quindi assolutamente fuori dal tempo, con tutti i rischi che una scelta del genere può comportare. A me è piaciuto, tanto da dedicargli ben più di un ascolto, ma è proprio uno dei miei generi preferiti, e mi ha ricordato non poco gli splendidi lavori di Jonathan Wilson; altri potrebbero obiettare sull'opportunità di un disco così, visto che già quarant'anni fa questo genere aveva dato tutto. A questi ultimi, effettivamente, a parte l'indubbia piacevolezza di Ourboros, non saprei come obbiettare.

Voto: 7.5

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