The Black Keys - Let's Rock (2019) Recensione
Dopo 5 anni di separazione, occupati specie da Dan Auerbach con una miriade di progetti più o meno riusciti, tornano i Black Keys con Let’s Rock.
Il
battage è quello consueto dei ritorni di band di grande successo, ovvero
roboanti dichiarazioni sul fatto che una volta entrati in studio sembrava non
fosse passato un solo giorno dall’ultima volta e sul ritorno alla musica che si
faceva a 16 anni. Le riviste mainstream, masticato, digerito e risputato quello
che una volta era un fenomeno alt-blues nato in garage, gridano ovviamente al
capolavoro col rock che è ancora vivo, eccome. Altro che morto, tsk tsk.
La
semplice verità che esce fuori ascoltando Let’s Rock è però quella di un disco
fortemente interlocutorio, incerto tra il robusto e grezzo rock blues degli
esordi e le sempre più frequenti strizzate d’occhio al mercato dei lavori più
maturi. Auerbach e Patrick Carney sono due quasi quarantenni, accasati e milionari,
ormai ben lontani dai furori da swamp blues garage degli esordi, e ci mancherebbe.
Il problema è che l’album rischia di scontentare i facinorosi della prima ora e
quelli che ritengono la musica poco più che un sottofondo.
Shine
a little light apre il lavoro in modo fortemente ritmico e promettente, sembra quasi una
cover virata al blues di Robot Rock dei Daft Punk, salvo poi aprirsi in una
parte cantata country pop. Forse il pezzo migliore della raccolta; discutibile
magari porlo in apertura. Eagle Birds è a sua volta un buon pezzo; l’andamento
riprende un po’ le atmosfere down home alla Junior Kimbrough sempre care a Dan
Auerbach e, nonostante il ritornello banalizzi un po’ il tutto, il lavoro alla
chitarra è encomiabile. Nessun pezzo della raccolta, va detto, supera i quattro
minuti, quindi inutile aspettarsi grandi evoluzioni strumentali.
Lo/Hi
è il singolo in giro già da qualche mese, accattivante ma dove la formula blues
è davvero troppo annacquata per i veri appassionati, tra i Dire Straits più
commerciali e una discutibile rivisitazione di Spirit in the sky.
Walk
across the water fa di nuovo venire in mente Norman Greenbaum e la sua Spirit
in the sky e, almeno secondo me, capiterà ancora lungo l’album. E la cosa,
sempre per chi scrive, non è troppo lusinghiera e si traduce in un bel riff
blues sprecato e diluito in una melodia fin troppo zuccherosa. Dopo la
passabile Tell Me Lies la cosa si ripete con Every little thing, dove un
promettente avvio con una chitarra piena di feedback alla Clapton periodo
Cream, viene presto annacquata nella consueta formula soft rock.
Da
qui in poi si apre un siparietto country con Get yourself together, sorta di
Lay down sally 2.0 e Sit Around and miss you, che pare uscita dal canzoniere di
Father John Misty e/o dei Creedence Clearwater Revival, con a solo che
fotocopia J.J.Cale. Carine, anche se leggermente disorganiche all’interno di
Let’s Rock.
Con
la successiva Go si passa ai fondi di magazzino, con l’apice al contrario di
Breaking Down, con un inspiegabile intro al sitar, breve intermezzo funk e
resto del pezzo che sembra una versione depotenziata di Shine a little light.
Sinceramente sarebbe stato forse meglio chiudere coi primi otto pezzi, magari
un po’ più lavorati e ampliati strumentalmente, a costo di offendere le
cerumate orecchie del pubblico mainstream.
Insomma,
i Black Keys nel 2019 sono questi, una band divisa tra l’anima più nera e
quella più legata al mercato, come del resto è successo prima di loro a decine
di artisti e non credo che a questo punto della carriera vedremo più i due,
Auerbach specialmente, prendere per le corna i demoni blues che permeavano la
loro musica gli inizi.
Voto:
6
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