Yngwie Malmsteen - Blue Lightning (2019) Recensione
Lo ammetto, finora nella mia carriera di fruitore compulsivo di musica e di occasionale recensore, la più grande curiosità che covavo su Yngwie Malmsteen era di sapere come stracacchio si pronunciasse il suo nome.
Questo fino a
quando, in modo piuttosto casuale, sono venuto a conoscenza dell’uscita di Blue
Lightning, nientemeno che un disco blues del virtuoso della sei corde.
Blue
Lightining, diciamolo subito, è un disco importantissimo per il blues e il rock
blues. È infatti il disco che stabilisce definitivamente come non si debba fare
un disco di blues.
Il
blues è un genere seminale, con la sua struttura originale e le sue evoluzioni
ha dato vita praticamente a tutto quello che consideriamo – con una certa
superficialità – rock. Non ci sarebbe stato il rock’n’roll di Elvis e Chuck
Berry, non sarebbe esistito il british blues e, senza il chitarrismo elettrico
del Chicago Blues, Jimmy Page e Jeff Beck probabilmente a quest’ora sarebbero
operai in pensione.
Il
blues è sempre stato il genere del feeling per eccellenza, quello dove bastava
mettere insieme un manico con una scatola di sigari e qualche corda, sedersi
sul cadente porticato di qualche bettola nel Mississipi e, magari a digiuno di
qualsiasi tecnica ma con tanto da raccontare, e si poteva dar vita a piccoli
capolavori.
Bene,
vi chiederete, cosa c’entra in tutto ciò il buon Yngwee? Nulla, dite?
Perfetto,
risposta esatta!
Blue
Lightning rivisita otto superclassici, alternati a quattro inediti che si
muovono sulla falsariga, con la tonitruante chitarra del nostro e la sua –
discutibile – vocalità.
Dopo
l’attacco con la title track, Foxy Lady e Demon’s Eye, rispettivamente da Jimi
Hendrix e Deep Purple, fanno capire su cosa si basi il lavoro: il nulla, per
l’appunto. I pezzi vengono trattati dalla sapiente, si fa per dire, mano di
Malmsteen: cascate di note e virtuosismi fino al parossismo. Uno psicologo
certo troverebbe interessante studiare questa necessità di riempire ogni spazio
con note che, peraltro, poco hanno a che vedere col blues, unita a un modo
tronfio e auto celebrativo di porsi – tra sterminate collezioni di chitarre,
Ferrari in bella mostra, ville lussuose e camicie aperte sul torace – da far
invidia a una puntata del Boss delle cerimonie.
Si
procede col massacro di altri classici; ce n’è per tutti, dal bellissimo slow
Blue Jean Blues degli ZZTop – forse il meno peggio – ai Beatles e ai Rolling
Stones, fino al pezzo che non può mancare nel repertorio di qualsiasi
chitarrista elettrico, che sia un mostro sacro come Yngwee Malmsteen o uno
strimpellatore della domenica: Smoke on the water.
Ma
niente, più si procede nell’ascolto e più si è investiti da fiumi di note che,
oltre all’onanistico piacere che speriamo ne tragga lo svedese, lasciano
tramortito lo sventurato ascoltatore; io ho dovuto dividere l’ascolto in due
riprese, avevo fastidio fisico a sentire tale sproloquio musicale.
Sembra
di sentire qualche allievo chitarrista fusion che vuole impressionare il suo
maestro cercando di riempire qualsiasi spazio tra una nota e l’altra; certo,
Yngwee lo fa benissimo, con una tecnica irraggiungibile.
E
per questo il lavoro assume grande importanza, proprio nel dimostrare che il
virtuosismo tecnico assolutamente non basti per realizzare un buon prodotto
artistico. Anzi, in questo caso – e chi si accosta al blues non lo dimentichi –
l’effetto è totalmente opposto, tanto da sfiorare pericolosamente la
caricatura.
Voto:
1
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