Richard Hawley - Further (2019) Recensione
Da poco più di un mese è uscito Further, ottavo lavoro in studio di Richard Hawley.
Diciamolo subito, Richard Hawley è un culto buono non per pochissimi, ma sicuramente non per tutti. Dopo i brevi fasti brit pop coi Longpipes, con tanto di derive da rockstar e salvataggio in extremis grazie ai cugini Pulp, soprattutto ad opera del fraterno amico Jarvis Cocker, il nostro ha avviato una carriera solista all’insegna del basso profilo e della grande qualità.
Le
ballate soft, la chitarra dal riverbero anni ’50, la voce da crooner e l’aspetto dimesso sono stati
da subito i suoi marchi di fabbrica; le sue canzoni da sempre narrano piccole
storie e luoghi, specie della sua amata Sheffield, e hanno fatto sì che gli si
creasse attorno uno zoccolo duro di fan affezionati.
Ora,
lasciatemelo dire, i fan affezionati sono una bellissima cosa. Almeno fino a
quando non decidi di cambiare qualche virgola al tuo stile consolidato.
È
quello che capita con questo Further.
Per chi scrive, il lavoro è un riuscitissimo passo avanti – e Further vuol dire proprio questo – verso
la giusta evoluzione di un artista, e questo a molti fan non è piaciuto.
Eppure
l’album è assolutamente in linea con la qualità a cui Hawley ci ha abituati; i
cambiamenti sono in alcuni pezzi sicuramente più up tempo e mossi del solito. Nell’aumentato tono delle chitarre in
alcuni frangenti. Eppure la voce da crooner
di Richard è sempre bellissima e suggestiva, anzi è forse migliorata con la
piena maturità. Le melodie – ascoltate Alone,
per dire – sono sempre quelle catchy
e retrò dei tempi di Coles Corner.
Further parte subito col pedale
sull’acceleratore con Off My Mind,
pezzo che riprende atmosfere brit pop,
con una bellissima parte di chitarra dal suono assai saturo. Alone sfoggia a sua volta un
arrangiamento rockeggiante su una
melodia di rara bellezza. Sembra quasi di ascoltare il Morrissey solista di You Are The Quarry.
My Little Treasures permette di tirare il fiato
con un brano dall’andamento più tipico dello stile di Hawley; siamo dalle parti
di The Divine Comedy, con un ritornello accattivante che si apre all’improvviso
come uno squarcio di sole in una battistiana
giornata uggiosa.
Further ed Emilina Says sono di nuovo due pezzi classici, dal ritmo piuttosto
blando e che accontentano i fan della prima ora. Is There A Pill? è una ballata più strutturata nell’arrangiamento e
sfoggia una di quelle melodie che giureresti di aver già sentito ma che non
riesci ad afferrare – ma che una volta afferrata ricorda Sunday Morning dei Velvet Underground.
Galley Girl è una robusta incursione
nel country, genere caro al nostro. L’atmosfera è quasi da colonna sonora
western – avete presente la Rawhide resa
celebre dai Blues Brothers ?– e così la chitarra ispirata di Richard. La
melodia è talmente immediata che mi sono sorpreso a canticchiarla durante il
primo ascolto.
L’album
scivola via con qualche altra ballata classica, una su tutte Lonely, che pare uscita dai Fleetwood
Mac, del periodo blues-pop di Peter Green, e Time Is, particolare incrocio tra gli Stones e le svisate pseudo
blues che gli Oasis usavano a volte inserire nei loro album; forse il pezzo più
debole di un lavoro che a me è piaciuto.
Perché
se c’è sempre bisogno di artisti che portino innovazione nel rock, a volte si
sente la necessità di tornare a casa.
Ecco,
ascoltare un nuovo lavoro di Richard Hawley è come tornare a casa.
E
non è poco.
Voto: 7
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