Recensione: L'Amore e la Violenza - Baustelle (2017)
Riprendiamo le pubblicazioni con post nuovi e qualche recensione già apparsa sulle riviste con cui collaboro, nelle quali non faticherete a distinguere uno stile leggermente più istituzionale. Cominciamo dai Baustelle.
Nati a Montepulciano alla fine degli anni ’90 attorno alla
carismatica figura di Francesco Bianconi, cantante, autore e frontman,
esordiscono nel 2000 con l’autoprodotto “Sussidiario illustrato della giovinezza”, disco diventato
negli anni un vero cult, piccolo capolavoro di suoni elettronici a bassa
fedeltà e musica d’autore, incontro tra il brit pop dei Pulp e Fabrizio De
Andrè, con pezzi entrati nell’immaginario come “La canzone del parco” e “La
canzone del riformatorio”; lavoro per certi versi ancora acerbo, ma che porta
in sé già le caratteristiche principali della poetica dei Baustelle: melodie
che misteriosamente rimangono appiccicate dal primo ascolto senza però annoiare
e un talento letterario nel creare testi che uniscono alto e basso, espressioni
ricercate alternate al gergo giovanile e citazionismo esasperato ma quasi
mai fastidioso.
Il suono è caratterizzato anche dal dualismo tra la voce
impostata e quasi attoriale di Bianconi e quella sensuale di Rachele Bastreghi,
un mix che verrà spesso imitato negli anni e farà scuola nel pop degli anni
duemila in Italia.
Nel 2003 “La moda
del lento” è meglio prodotto ma prosegue benissimo sulla falsariga
dell’esordio e li fa conoscere a un pubblico più vasto col singolo “Love
affair”. “La
malavita”, il primo disco prodotto da una major, è il disco delle fratture,
quelle interne con l’uscita di Fabrizio Massara e quelle con il passato, grazie
a un disco più serio e maturo che abbandona in gran parte le istanze
adolescenziali dei primi due lp.
“Amen” è il disco della maturazione, mastodontico
nella lunghezza e nella produzione, unisce singoli d’effetto, “Charlie fa
surf”, a pezzi alla De Andrè, il capolavoro “Alfredo”, vincendo la “Targa
Tenco” del miglior album e mettendo d’accordo un po’ tutti. Segue “I
mistici dell’occidente”,lavoro di transizione che regala comunque alcuni
classici (“Le rane e la title track) e prepara al capolavoro della
maturità, “Fantasma”, concept sul tema della morte, denso di suite
orchestrali e dove Bianconi porta agli estremi la ricerca della perfezione di
forma e sostanza.
“L’amore e la
violenza” nasce proprio dall’ingombrante eredità di “Fantasma”, coi Baustelle
che per l’ennesima volta cambiano strada pur rimanendo fedeli a sé stessi,
abbandonando gli arrangiamenti sinfonici a favore di un ritorno all’elettronica
analogica e naif degli esordi. Il risultato sono dieci canzoni più
due brevi strumentali che ci consegnano un mix straniante tra i Baustelle degli
esordi e le voci di Bianconi e Rachele Bastreghi, nel frattempo fattesi più
mature come i temi affrontati. Eppure “L’amore e la violenza” è di nuovo un
disco che ha messo d’accordo un po’ tutti, nonostante la band toscana da sempre
attiri non solo elogi ma anche forti contrasti con i detrattori. Si tratta in
sostanza di un lavoro sicuramente di rottura rispetto ai precedenti, ma che,
allo stesso tempo, rientra perfettamente nei canoni Baustelle; ed ecco allora
temi importanti che ruotano attorno al filo conduttore della guerra che irrompe
nelle nostre apparentemente comode e asettiche esistenze occidentali,
dell’amore narrato più attraverso i contrasti e la violenza che genera, della
recente paternità di Bianconi, specie in "Ragazzina" e nell’appassionata
dichiarazione d’amore per la bellezza della vita “in quanto inutile” de
“La vita”. Si rinnova il mistero del talento melodico di Bianconi,
probabilmente uno dei migliori dagli anni ’60, con ritornelli che s’imprimono
nella memoria e si sposano alla perfezione con le voci dello stesso e di
Rachele. E le citazioni, che meriterebbero un trattato a parte; si va da Amanda
Lear, mito androgino della cultura pop a cui il disco si rifà, musa di Dalì e
di Bowie, a cui è intitolato uno dei pezzi più belli del lavoro, alla
religione, sempre molto presente, anche se in una chiave laica e di ricerca,
come ne “Il vangelo di Giovanni”. E ancora i ritornelli che evocano palesemente
il Battiato più pop e i campionamenti da modernariato come l’attacco di “Basso
e batteria”, ripreso dalla colonna sonora di “Sandokan”, che cita anche il mito
dell’avant pop letterario David Foster Wallace. La bellissima “Betty” crea il
personaggio attualissimo di una ragazza persa tra social e apatia, citando
acrobaticamente D’Annuzio e Facebook nello stesso verso “piove su immondizia e
tamerici, sui suoi 5000 amici”. La seconda parte del disco è leggermente più
classica, soprattutto nei pezzi di scuola genovese “Lepidoptera” e “Ragazzina”,
dove aleggiano i fantasmi di Tenco e De Andrè.
Un lavoro insomma che, pur mancando forse nel pezzo del
K.O., quello che si staglia sopra gli altri, conferma i Baustelle ben più di
una spanna sopra i tanti gruppi che negli anni si sono ispirati a loro,
soprattutto nel riuscire ad affrontare temi pesanti con un misto di leggerezza
e impegno e lascia, come nel finale aperto di un film, l’incertezza per le
future evoluzioni di Bianconi e compagni.
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