Avvistamenti: Graveyard - Innocence & Decadence (2015)


Chi ha avuto la pazienza quasi autolesionista di seguire questo blog negli ultimi anni, sa che da queste parti gli svedesi Graveyard sono una delle band preferite; li ritroviamo al quarto lavoro dopo il promettente esordio intitolato semplicemente Graveyard del 2007, Hisingen Blues del 2011, che rimane, a mio parere, il loro capolavoro, e Lights Out del 2012, lavoro a tratti involuto che divideva in egual parti luci e ombre. Ora è il turno di questo Innocence & Decadence, album che nelle intenzioni degli scandinavi dovrebbe aprire all'esplorazione di nuovi territori musicali, e che si segnala per il ritorno di Truls Morck, ex chitarrista che stavolta si occupa delle parti di basso e, in un paio di brani, canta. Va detto subito che, a dispetto delle intenzioni della band, l'album suona abbastanza simile ai lavori precedenti, e questo può essere un bene vista la qualità dei primi tre lavori, tuttavia qua e là una certa prevedibilità e piattezza rischia di affiorare. L'album si apre, abbastanza tipicamente, con un bel pezzo hard, di quelli velocissimi e urlati allo spasimo tra un riffone e l'altro, che giustamente hanno reso famosi i Graveyard, Magnetic Shunk, con atmosfere che vengono replicate anche in Never Theirs To Sell e nella tirata Hard Headed; sembra però mancare a questi pezzi il fascino e l'effetto sorpresa di pezzi come Hisingen Blues o Ain't Fit To Live Here. Si prosegue con The Apple & The Tree, un cui verso dà il titolo all'album, pezzo sbilanciato piacevolmente sul versante blues, dove, ma è una mia impressione, ho ravvisato nella strofa una piccola somiglianza con All Along The Watchtower di Bob Dylan. Andiamo avanti con Exit 97, che assieme a Too Much Is Not Enough e Far Too Close, si prende in carico l'impegnativo compito di evocare il lato più slow e intenso del songbook degli svedesi, ovvero quello in cui riescono meglio dai tempi delle leggendarie No Good, Mr. Holden e Uncomfortably Numb; diciamo che qui la band riesce a metà, Exit 97 infatti è un pezzo che non decolla come dovrebbe, mentre Too Much Is Not Enough, pur proponendo un cantato intenso e belle parti di chitarra, stecca un po' nei coretti soul, sì innovativi nel suono del gruppo, ma a rischio di risultare un po' ruffiani e fuori contesto, se non stucchevoli, mentre Far Too Close è forse l'episodio più riuscito e intenso dell'intero disco, uno slow di gran classe. Altri episodi da segnalare i pezzi cantati dal redivivo Morck, Can't Walk Out e From A Hole In The Wall, dove la voce non proprio potente e un po' asmatica del bassista lascia dapprima un po' interdetti, ma alla distanza di qualche ascolto, rischia di essere una piacevole sorpresa, soprattutto nel secondo pezzo, un hard blues che precipita l'ascoltatore nei favolosi anni a cavallo tra '60 e '70, sulla scia di supergruppi quali Cream e Experience. Segnalo infine la chiusura di Stay For A Song, ballad per sola voce e chitarra elettrica(o quasi), anche questa riuscita a metà. Ed è un po' la cifra di tutto l'album, quella della riuscita a metà, per un lavoro che si fa ascoltare piacevolmente, ma che non aggiunge nulla di nuovo alla storia dei Graveyard.

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