Recensione: Psychic Ills - Inner Journey Out (2016)


Gli Psychic Ills li ho scoperti recentemente, quando, in un'inedita veste tra fotografo e recensore, sono stato spedito senza tanti complimenti all'Indierocket Festival per conto di una testata della mia regione; ammetto che prima ne ignoravo bellamente l'esistenza, nonostante i ragazzi di New York non siano esattamente dei pivellini, essendo ormai al quinto album.
Comunque, mia ignoranza a parte, gli Psychic Ills, dal vivo, mi hanno molto ben impressionato, complice anche la pochezza delle altre band in cartellone, abbinando a una convincente presenza scenica un rock psichedelico dai toni soffusi, fin troppo a volte, ipnotico e letargico. La particolarità però di questa band sta tutta nelle strutture dei loro brani, se è vero che al di là di arrangiamenti cosmico-psichedelici, tra tappeti di tastiere, chitarre sbilenche e cantilenanti, e la vocalità a dir poco indolente di Tres Warren, ben coadiuvata dalla bassista Elizabeth Hart (peccato che continuasse a far su e giù col suo basso che manco Wilko Johnson, impedendomi una foto decente), l'ossatura dei brani è puro e semplice country, con qualche svisata blues. L'impressione, infatti, è che i brani, se spogliati da arrangiamenti a volte anche un po' presuntuosi nella loro indolenza, potrebbero ricordare addirittura Bob Dylan, oltre che le ispirazioni ben chiare di Spaceman 3, Opal e Mazzy Star.
E proprio i Mazzy Star sono evocati in modo eloquente in I Don't Mind, forse il passaggio più efficace del disco, tanto che il pezzo ospita la bella voce di Hope Sandoval, per l'appunto storica vocalista della band americana. Altri pezzi da ricordare sono All Alone, ballata quasi radiofonica, il blues addormentato e estenuante di Coca Cola Blues, l'efficace chitarra della lentissima No Worry e la stupenda Confusion. Accenni raga e cosmici danno fascino al tutto, anche se episodi come Hazel Green e Ra Wah Wah la tirano veramente troppo in lungo, sfidando la pazienza dell'ascoltatore non dedito a sostanze psicotrope. E, mi permetto di aggiungere, proprio l'eccessiva lunghezza è un altro difetto di questo lavoro, davvero troppo prolisso per guadagnarsi il plauso che meriterebbe. 
In definitiva, Inner Journey Out è un lavoro che alterna momenti di grande ispirazione ad altri di una noia quasi mortale, e il 6.5 che mi strappano deve un mezzo voto al coraggio di seguire la propria strada nonostante il plauso non proprio unanime della critica.

Voto: 6.5

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