Recensione: Front Row Seat To Earth - Weyes Blood (2016)

Già dalla surreale cover del disco si intuisce che nel mondo di Weyes Blood, moniker della californiana Nathalie Mearing, le cose non vanno come in quello di noi comuni mortali. Basta poi procurarsi Front Row Seat To Earth e pigiare il tasto play per trovarsi catapultati in una realtà parallela dove convivono pacificamente il miglior folk della west coast degli anni '70, un sound che vira a tratti verso la pura avanguardia, delicati ed eccentrici tocchi d'elettronica e una voce  matura ed eterea che a volte si libra dalle parti di un' Enya privata di tutte le pesantezze new age del caso. Il tutto filtrato da una sensibilità surreale e naif dalle parti di Tim Burton.
 Con alle spalle un lavoro sulla lunga distanza, The Innocents del 2014, e un' Ep, Cardamom Times, entrambe piuttosto promettenti, Nathalie torna con un lavoro che se non sarà quello della definitiva consacrazione, ci si avvicina molto.
Fin dall'apertura di Diary le carte sono scoperte, approccio strumentale minimale ma molto ricercato, giri di piano in apparenza semplici ma mai scontati, tastierine sintetiche buttate qua e là con finta nonchalance e, soprattutto, la voce, vero strumento aggiunto, spesso raddoppiata in fase di produzione e capace di emozionare come una vera voce folk deve saper fare. Mai sopra le righe, la voce di Weyes Blood è capace di passare dalle sommesse sonorità dei registri bassi con cui spesso apre i suoi pezzi, a veri e propri voli pindarici nei ritornelli, agevolata da alcune delle melodie più belle e cristalline degli ultimi anni; questo succede in special modo nella sontuosa Be Free, delicatissima ballata graziata da una di quelle melodie che potresti impazzire cercando di ricordare dove l'hai già sentita, ma che in realtà è nuova di zecca e antica come la musica allo stesso tempo, o in Do You Need My Love, dove la voce di Nathalie sembra quasi, nel suo distacco che sa allo stesso tempo emozionare, venire da un'altra dimensione.
Splendide e potenziali hit radiofoniche (magari con arrangiamenti più normalizzati), Generation Why, Seven Words e Away Above, mentre la chiusura è affidata a Font Row Seat, rumoristica e sperimentale.
Per me, uno dei dischi impossibili da mancare del 2016 che mi lascia con grande curiosità in vista di sviluppi futuri.

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