Jimmie Vaughan - Baby, Please Come Home (2019) Recensione



È sul mercato da un po’ di tempo Baby, Please Come Home, il ritorno in studio di registrazione di Jimmie Vaughan.


Per cominciare, ho una confessione da fare a proposito di Jimmie Vaughan che probabilmente mi costerà la disapprovazione di tanti appassionati di blues: ho sempre preferito la visione della musica del diavolo di Jimmie a quella del ben più celebre fratello, il compianto Steve Ray.
Maggiore di pochi anni rispetto a Steve, Jimmie ha senz’altro l’indubbio merito di aver avviato alla chitarra elettrica il fratello minore in quel di Austin, Texas.
Ora, immaginatevi il Texas degli anni ’60 e ’70. Avete mai visto un episodio de La Vita Secondo Jim? Ecco, ci siamo. Football americano, muscle car, birra gelata, donne ai fornelli e un approccio alla politica che farebbe sembrare Trump un giovane comunista di Lotta Continua. E il blues, come unica cosa da salvare.
Il buon Jimmie non fa eccezione – anni fa ha  anche sostenuto la campagna elettorale del repubblicano Ron Paul – tanto che ha iniziato a suonare la chitarra elettrica dopo che un infortunio piuttosto serio gli impedì di proseguire nel football.
Attivo dalla fine degli anni sessanta, nel 1974 fonda i Fabulous Thunderbirds, pub band che si fa le ossa suonando un rock blues tanto grezzo quanto efficace per tutto il sud. Ma il destino di Jimmie è sempre a un passo e mezzo dal grande successo, così, mentre Steve Ray infiamma i palchi di mezzo mondo e affronta l’immancabile calvario di fama, droga e stravizi da rockstar, i Thunderbirds centrano la grande hit solo nel 1986. Il pezzo è Tuff Enuff, il sound non ha resistito all’avvento dei patinati anni ‘80 e si è fatalmente levigato, risultando ben lontano da quello grezzo e sincero degli esordi. Al punto che Jimmie, appena assaporato un po’ di successo, abbandona il progetto. Passano quattro anni e di nuovo la celebrità sembra a portata di mano: Steve Ray si è ripulito ed è tornato ai fasti di un tempo, quando i due realizzano assieme Family Style. Di nuovo, però, il destino rema contro; intanto, il disco è ben al di sotto delle aspettative e del resto è pure vero che Steve Ray non ha mai brillato troppo per la scrittura dei pezzi. Ma la tegola più pesante arriva poco prima dell’uscita dell’LP: il famoso, tragico schianto in elicottero sull’Alpine Valley e Steve non c’è più.
La carriera solista di Jimmie Vaughan da allora conta una manciata di album, spesso separati da parecchi anni, sempre all’insegna di una grande qualità e rispetto per le radici. E sempre ben lontana dai grandi numeri, nonostante Jimmie goda della grande stima di colleghi come Eric Clapton, che lo vuole quasi sempre a fianco nel suo Crossroads Festival.
Baby, Please Come Home è proprio il titolo giusto per questa nuova raccolta: ascoltare la Stratocaster di Vaughan – immutabile negli anni – e la sua bella voce è esattamente come tornare nella nostra casa di bambini. Tutto sembra così vicino, cambiato però sempre uguale. Il lavoro è costituito da cover – da T-Bone Walker a Clarence “Gatemouth” Brown – ma poco importa. Nel blues, come nel jazz, interessa più l’esecuzione dell’originalità dei pezzi. E in questo Jimmie non delude. Il sound della sua Fender è inconfondibile, secco e pulito – tanto che sembra più di sentire una Telecaster – e la voce è adattissima ai suoi tipici shuffle e jump blues. I lick di chitarra su cui si muove Vaughan sono sempre gli stessi, eppure ogni volta suonano irresistibili alle orecchie dell’appassionato di blues. Se Steve Ray era l’ideale prosecuzione di un discorso iniziato da Albert King e proseguito da Jimi Hendrix, una vera cascata di note che seppelliva l’ascoltatore, si può dire che il lavoro di Jimmie parta dalle stesse basi ma tornando indietro, addirittura scarnificando il sound dei maestri. Se volete la cifra esatta dello stile di Jimmie, ascoltate Hold It, lo strumentale posto a metà disco: la sua chitarra rilassata e si intreccia alle note di un vecchio organo Hammond. Sembra la house band di un locale di spogliarello di Austin che tenta di emulare – in modo grezzo – l’organo di Booker T e la Telecaster di Steve Cropper.
In definitiva, Baby, Please Come Home è un disco per appassionati, vivamente sconsigliato a chi cerca innovazione e contenuti profondi. Per tutti gli altri – che lo so, saranno pochi – una goduria.

Voto: 6.5

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