Recensione: Purson - Desire’s Magic Theatre (2016)
Nel ricco carrozzone del rock revivalista, dedito a registrazioni analogiche, travestitismi occulti, citazioni colte che vanno a parare sempre negli stessi paraggi, e calendario che pare essersi bloccato al 1971, i Purson rappresentano qualcosa di diverso.
Già, perché la band inglese, guidata da quella creatura onirica che risponde al nome di Rosalie Cunningham, bellissima nel suo look da fata psichedelica e, soprattutto, detentrice di una vocalità ispirata, partono sì dall'hard rock psichedelico dei primi seventies, ma questi semi vengono gettati in ogni direzione, aprendo a risultati che vanno dal folk dei Jehtro Tull, alle melodie dei Beatles, a break strumentali che devono molto ai Doors, ma anche a reminiscenze da cabaret, teatro vittoriano, Hendrix, Small Faces e Kinks, in un caleidoscopio sonoro che rischia di lasciare storditi; e questo già dall'avvio con la title track, che parte con un riff sabbathiano su cui si innesta prepotente la voce sensuale e smargiassa di Rosalie, per poi cambiare registro, rovesciarsi su sé stessa fino a diventare una ballata folk. Electric Landlady, già dal titolo, è un omaggio a Jimi Hendrix, ricordato soprattutto nel riff, ma con toni molto soft per un risultato che, come anche in altri pezzi, ricorda i Kula Shaker come vorrei suonassero ancora. Anche la successiva Dead Dodo Down è un pezzo killer, molto vicino alla psichedelia del periodo d'oro, dalle parti dei Jefferson Airplane soprattutto grazie alla vocalità della Cunningham, non distante dalla Grace Slick del tempo che fu; a completare il tutto un solo di chitarra davvero gustoso nella sua brevità.
Da qui in poi il disco procede alternando ancora folk, prog e compagnia bella, ma c'è ancora spazio per un paio di gemme, la beatlesiana, anzi, harrisoniana, The Window Cleaner e la stupenda Mr. Howard, il cui protagonista, dietro la ritmica blueseggiante cela lontane parentele col Mr. Jones della Ballad Of A Thin Man di Dylan.
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