tag:blogger.com,1999:blog-72550516036088768422024-02-08T01:12:09.728+01:00ALR ART BLOGLuogo di CultAndrea La Roverehttp://www.blogger.com/profile/06660947487001818837noreply@blogger.comBlogger906125tag:blogger.com,1999:blog-7255051603608876842.post-35314865984303151562019-07-28T14:50:00.003+02:002019-07-28T14:50:38.957+02:00Jimmie Vaughan - Baby, Please Come Home (2019) Recensione<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgTkjSxIoENPdFTfoR8gZFaHjkxUYzHYGECKRbKAPmyXqldd7eDm7nmMAG1lunBY6WgZHRzveMR7fNqfQO8aVDU_Lzd3RVlwo9qFy0s-2bJpddBhgJumd-ytDnpGFe49UjoqAq6d6LXz6Z8/s1600/Jimmie.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="560" data-original-width="560" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgTkjSxIoENPdFTfoR8gZFaHjkxUYzHYGECKRbKAPmyXqldd7eDm7nmMAG1lunBY6WgZHRzveMR7fNqfQO8aVDU_Lzd3RVlwo9qFy0s-2bJpddBhgJumd-ytDnpGFe49UjoqAq6d6LXz6Z8/s320/Jimmie.jpg" width="320" /></a></div>
<h2>
<span style="font-family: "book antiqua" , serif; line-height: 115%;"><br /></span></h2>
<h2>
<span style="font-family: "book antiqua" , serif; line-height: 115%;">È sul mercato da un po’ di tempo <i>Baby, Please Come Home</i>, il ritorno in studio di registrazione di
Jimmie Vaughan.
<iframe allow="accelerometer; autoplay; encrypted-media; gyroscope; picture-in-picture" allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="https://www.youtube.com/embed/VYJ2w2EUwgQ" width="560"></iframe>
</span></h2>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: "book antiqua" , serif; line-height: 115%;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: "book antiqua" , serif; line-height: 115%;">Per cominciare, ho una confessione da fare a proposito
di<b> Jimmie Vaughan </b>che probabilmente mi costerà la disapprovazione di tanti
appassionati di blues: ho sempre preferito la visione della <i style="mso-bidi-font-style: normal;">musica del diavolo</i> di Jimmie a quella
del ben più celebre fratello, il compianto<b> Steve Ray</b>.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: "book antiqua" , serif; line-height: 115%;">Maggiore di pochi anni rispetto a Steve, Jimmie ha
senz’altro l’indubbio merito di aver avviato alla chitarra elettrica il
fratello minore in quel di <b>Austin, Texas</b>.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: "book antiqua" , serif; line-height: 115%;">Ora, immaginatevi il Texas degli anni ’60 e ’70. Avete
mai visto un episodio de <i style="mso-bidi-font-style: normal;">La Vita Secondo
Jim</i>? Ecco, ci siamo. Football americano, <i style="mso-bidi-font-style: normal;">muscle car</i>, birra gelata, donne ai fornelli e un approccio alla
politica che farebbe sembrare Trump un giovane comunista di Lotta Continua. E
il blues, come unica cosa da salvare.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: "book antiqua" , serif; line-height: 115%;">Il buon Jimmie non fa eccezione – anni fa ha<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>anche sostenuto la campagna elettorale del
repubblicano Ron Paul – tanto che ha iniziato a suonare la chitarra elettrica
dopo che un infortunio piuttosto serio gli impedì di proseguire nel football.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: "book antiqua" , serif; line-height: 115%;">Attivo dalla fine degli anni sessanta, nel 1974 fonda i
<b>Fabulous Thunderbirds</b>, <i style="mso-bidi-font-style: normal;">pub band</i> che
si fa le ossa suonando un rock blues tanto grezzo quanto efficace per tutto il
sud. Ma il destino di Jimmie è sempre a un passo e mezzo dal grande successo,
così, mentre Steve Ray infiamma i palchi di mezzo mondo e affronta
l’immancabile calvario di fama, droga e stravizi da rockstar, i Thunderbirds
centrano la grande hit solo nel 1986. Il pezzo è <i style="mso-bidi-font-style: normal;"><b>Tuff Enuff</b></i>, il sound non ha resistito all’avvento dei patinati anni
‘80 e si è fatalmente levigato, risultando ben lontano da quello grezzo e
sincero degli esordi. Al punto che Jimmie, appena assaporato un po’ di
successo, abbandona il progetto. Passano quattro anni e di nuovo la celebrità
sembra a portata di mano: Steve Ray si è ripulito ed è tornato ai fasti di un
tempo, quando i due realizzano assieme <i style="mso-bidi-font-style: normal;"><b>Family
Style</b></i>. Di nuovo, però, il destino rema contro; intanto, il disco è ben al
di sotto delle aspettative e del resto è pure vero che Steve Ray non ha mai
brillato troppo per la scrittura dei pezzi. Ma la tegola più pesante arriva
poco prima dell’uscita dell’LP: il famoso, tragico schianto in elicottero
sull’<b>Alpine Valley</b> e Steve non c’è più.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: "book antiqua" , serif; line-height: 115%;">La carriera solista di Jimmie Vaughan da allora conta
una manciata di album, spesso separati da parecchi anni, sempre all’insegna di
una grande qualità e rispetto per le radici. E sempre ben lontana dai grandi
numeri, nonostante Jimmie goda della grande stima di colleghi come Eric
Clapton, che lo vuole quasi sempre a fianco nel suo Crossroads Festival.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal">
<i style="mso-bidi-font-style: normal;"><span style="font-family: "book antiqua" , serif; line-height: 115%;"><b>Baby,
Please Come Home</b></span></i><span style="font-family: "book antiqua" , serif; line-height: 115%;"><b> </b>è proprio il titolo giusto per questa
nuova raccolta: ascoltare la Stratocaster di Vaughan – immutabile negli anni –
e la sua bella voce è esattamente come tornare nella nostra casa di bambini.
Tutto sembra così vicino, cambiato però sempre uguale. Il lavoro è costituito
da cover – da T-Bone Walker a Clarence “Gatemouth” Brown – ma poco importa. Nel
blues, come nel jazz, interessa più l’esecuzione dell’originalità dei pezzi. E
in questo Jimmie non delude. Il sound della sua Fender è inconfondibile, secco
e pulito – tanto che sembra più di sentire una Telecaster – e la voce è
adattissima ai suoi tipici <i style="mso-bidi-font-style: normal;">shuffle</i> e <i style="mso-bidi-font-style: normal;">jump blues</i>. I <i style="mso-bidi-font-style: normal;">lick</i> di chitarra su cui si muove Vaughan sono sempre gli stessi,
eppure ogni volta suonano irresistibili alle orecchie dell’appassionato di
blues. Se Steve Ray era l’ideale prosecuzione di un discorso iniziato da Albert
King e proseguito da Jimi Hendrix, una vera cascata di note che seppelliva
l’ascoltatore, si può dire che il lavoro di Jimmie parta dalle stesse basi ma
tornando indietro, addirittura scarnificando il sound dei maestri. Se volete la
cifra esatta dello stile di Jimmie, ascoltate <i style="mso-bidi-font-style: normal;">Hold It</i>, lo strumentale posto a metà disco: la sua chitarra rilassata
e si intreccia alle note di un vecchio organo Hammond. Sembra la <i style="mso-bidi-font-style: normal;">house band</i> di un locale di spogliarello di
Austin che tenta di emulare – in modo grezzo – l’organo di Booker T e la
Telecaster di Steve Cropper.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: "book antiqua" , serif; line-height: 115%;">In definitiva, <i style="mso-bidi-font-style: normal;">Baby,
Please Come Home</i> è un disco per appassionati, vivamente sconsigliato a chi
cerca innovazione e contenuti profondi. Per tutti gli altri – che lo so,
saranno pochi – una goduria.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: "book antiqua" , serif; line-height: 115%;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: "book antiqua" , serif; line-height: 115%;"><b>Voto: 6.5</b></span></div>
<br />
<iframe src="https://open.spotify.com/embed/album/7LvvE7wTsLKTmjJ6EsdHiP" width="300" height="380" frameborder="0" allowtransparency="true" allow="encrypted-media"></iframe>Andrea La Roverehttp://www.blogger.com/profile/06660947487001818837noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7255051603608876842.post-59857811560962668922019-07-23T14:51:00.002+02:002019-07-23T14:51:38.718+02:00The Mothercrows - Magara (2019) Recensione<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEikSw13wdII8zkSzcJNLQ5Fj-h3cZ3z31FPMt0nOWOtiXsh4gyVBDNz9rHT7Z9GMRT6YHCORdQK_LRu8Qzvc7fnlrOTqPcZqrApFYwancfinE1NFmUpMPIzB_k2W-jwzSu7fFORNXr2fXLu/s1600/Mothercrow1.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1200" data-original-width="1200" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEikSw13wdII8zkSzcJNLQ5Fj-h3cZ3z31FPMt0nOWOtiXsh4gyVBDNz9rHT7Z9GMRT6YHCORdQK_LRu8Qzvc7fnlrOTqPcZqrApFYwancfinE1NFmUpMPIzB_k2W-jwzSu7fFORNXr2fXLu/s320/Mothercrow1.jpg" width="320" /></a></div>
<h2>
<i style="mso-bidi-font-style: normal;"><span style="font-family: "book antiqua" , serif; line-height: 115%;"><br /></span></i></h2>
<h2>
<i style="mso-bidi-font-style: normal;"><span style="font-family: "book antiqua" , serif; line-height: 115%;">Magara</span></i><span style="font-family: "book antiqua" , serif; line-height: 115%;"> è
il titolo del primo album dei <a href="https://www.facebook.com/themothercrowofficial/?epa=SEARCH_BOX" target="_blank">Mothercrow</a>, band spagnola che cerca di perpetuare
la grande tradizione dell’hard rock anni ’70.
<iframe allow="accelerometer; autoplay; encrypted-media; gyroscope; picture-in-picture" allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="https://www.youtube.com/embed/bKqx16suAwE" width="560"></iframe>
<o:p></o:p></span></h2>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: "book antiqua" , serif; line-height: 115%;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: "book antiqua" , serif; line-height: 115%;">C’è un sottile filo rosso che parte dagli anni d’oro
del rock e arriva fino ai giorni nostri. Gli anni sessanta furono – non solo a
livello musicale – quelli dove l’emancipazione femminile iniziò a prendere
davvero corpo, dando frutti ben visibili a tutti. Sotto il profilo
squisitamente musicale, che qui interessa, tanti nomi sono ancora oggi veri e
propri <i style="mso-bidi-font-style: normal;">cult</i>, come<b> Janis Joplin</b>, <b>Grace
Slick</b> dei <b>Jefferson Airplane </b>e, più in là,<b> Patti Smith</b>. Le ispirazioni
precedenti vanno cercate soprattutto nel blues,<b> Big “Mama” Thornton, Koko
Taylor e Etta James</b> sopra le altre. <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: "book antiqua" , serif; line-height: 115%;">Lo stile – tranne in qualche caso oggi poco ricordato
come <b>Nico e Christine Perfect </b>– è quello della donna <i style="mso-bidi-font-style: normal;">alpha,</i> ovvero canto urlato e perennemente sopra le righe,
atteggiamento da <i style="mso-bidi-font-style: normal;">camionista in trattoria</i>,
come se per sottolineare la forza di una donna bisognasse per forza imitare gli
atteggiamenti <i style="mso-bidi-font-style: normal;">machisti</i>, e spesso
ridicoli, di tanti duri del rock. Ma tant’è, spesso le avanguardie devono
gonfiare i muscoli per farsi notare.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: "book antiqua" , serif; line-height: 115%;">Quello che più stupisce è che ancora oggi questo
stereotipo sia ancora cavalcato in modo frenetico da tante band di aerea hard
rock e metal. <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: "book antiqua" , serif; line-height: 115%;">Se il fenomeno è squisitamente nord europeo – forse il
miglior esempio sono i Blues Pills – anche i paesi latini cercano il loro
spazio. In Italia forse l’esempio più nobile di donna del rock fu<b> Silvana
Aliotta</b>, splendida voce dei sottovalutati <b>Circus 2000</b>, attivi nel momento di
massimo fulgore del rock<i style="mso-bidi-font-style: normal;"> made in Italy</i>,
gli anni settanta del rock progressivo. E se oggi il fenomeno, digerito e
risputato in versione <i style="mso-bidi-font-style: normal;">mainstream</i>, dà
vita a parodie al limite del grottesco partorite per lo più dal mondo dei<i style="mso-bidi-font-style: normal;"> talent</i>, una band doom come i
<b>Psychedelic Witchcraft</b> della bravissima <b>Virginia Monti </b>sono un bell’esempio del
fenomeno.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: "book antiqua" , serif; line-height: 115%;">Ed ecco ora spuntare i <b>Mothercrow</b>, band spagnola –
arrivano da Barcellona – che, forte di un’intensa attività live – è riuscita
tramite <i style="mso-bidi-font-style: normal;">crowfunding </i>a produrre questo
<i style="mso-bidi-font-style: normal;"><b>Magara</b></i>, loro esordio.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: "book antiqua" , serif; line-height: 115%;"><br /></span></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi-KULv-17pQCIJYXFPHoTrIbOlBFoHfQplJoQ40or_qrDzQdPmXUBwaOznM6c64hLeRwyRCo2V4HCgTFMWoo3wmCk4AD604-od32kpoHSgqU-Bb1DUyCTjvY5qauHTD5k9lE6vEEmGtXGd/s1600/Mothercrow.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="637" data-original-width="960" height="212" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi-KULv-17pQCIJYXFPHoTrIbOlBFoHfQplJoQ40or_qrDzQdPmXUBwaOznM6c64hLeRwyRCo2V4HCgTFMWoo3wmCk4AD604-od32kpoHSgqU-Bb1DUyCTjvY5qauHTD5k9lE6vEEmGtXGd/s320/Mothercrow.jpg" width="320" /></a></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: "book antiqua" , serif; line-height: 115%;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: "book antiqua" , serif; line-height: 115%;"><br /></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: "book antiqua" , serif; line-height: 115%;">I dischi d’esordio hanno sempre il loro fascino, le
band ci tengono a dare il massimo e quello che ne esce fuori è quasi sempre un
concentrato esplosivo e sopra le righe. Non fa eccezione Magara; Karen Asensio
(voce), Claudia González (basso), Pep Carabante (batteria) e Max Eriksson
(chitarre) sono la personificazione di tutti gli archetipi legati al genere.
Karen è la vocalist perennemente invasata – sigaretta, atteggiamento
strafottente da <i style="mso-bidi-font-style: normal;">truck driver</i> texano,
sensualità da locale malfamato e voce adattissima al genere – mentre Claudia è
la bassista tutta tatuaggi e anelli col teschio. I due uomini del gruppo
sembrano usciti da una comune <i style="mso-bidi-font-style: normal;">hippie </i>della
California del ’68.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: "book antiqua" , serif; line-height: 115%;">Le atmosfere musicali sono rigorosamente <i style="mso-bidi-font-style: normal;">vintage</i>, dall’hard rock classico tra
AC/DC e Led Zeppelin di <i style="mso-bidi-font-style: normal;">Revolution</i> e <i style="mso-bidi-font-style: normal;">Lizard Queen</i>, agli accenti prog – il
flauto di <i style="mso-bidi-font-style: normal;">Gauan</i>, splendida ballata
cantata in spagnolo – fino ai <i style="mso-bidi-font-style: normal;">lentoni</i>
d’atmosfera come<i style="mso-bidi-font-style: normal;"> Forevermore</i> e <i style="mso-bidi-font-style: normal;">Ashes</i> (che ricorda da vicino <i style="mso-bidi-font-style: normal;">Medicine</i> dei sottovalutati <b>DeWolff</b>). La <i style="mso-bidi-font-style: normal;">title track Magara</i> è più sbilanciata sul
versante psichedelico e propone una bella parte di chitarra solista. <o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: "book antiqua" , serif; line-height: 115%;">La ricetta fa venire in mente tante cose già sentite –
a tratti i <b>Graveyard</b> o i primi <b>Witchcraft</b> ma meno cupi – e la formula è
sbilanciata sensibilmente più verso l’hard rock di scuola americana, quello un
po’ più <i style="mso-bidi-font-style: normal;">caciarone</i>, che non verso le
più raffinate radici europee del genere. Tuttavia qualche innesto di flauto e
passaggi più rallentati fanno ben sperare per il futuro.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: "book antiqua" , serif; line-height: 115%;">Un bel disco per chi si appassiona ancora di voci
urlate il giusto e chitarre che si infiammano sulle note pentatoniche, in attesa
di una maturazione che arriverà, data la giovane età, e che permetterà forse ai
Mothercrow di gonfiare meno i muscoli e di cercare la via al loro stile.<o:p></o:p></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: "book antiqua" , serif; line-height: 115%;">La strada pare quella buona.<span style="font-size: 12pt;"><o:p></o:p></span></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: "book antiqua" , serif; line-height: 115%;"><b><br /></b></span></div>
<div class="MsoNormal">
<span style="font-family: "book antiqua" , serif; line-height: 115%;"><b>Voto: 7</b></span></div>
<br />
<iframe allow="encrypted-media" allowtransparency="true" frameborder="0" height="380" src="https://open.spotify.com/embed/album/5QqkPX1q9Ib4ZW9sriRfUn" width="300"></iframe>Andrea La Roverehttp://www.blogger.com/profile/06660947487001818837noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7255051603608876842.post-71337789392675083282019-07-17T14:17:00.000+02:002019-07-17T14:18:54.284+02:00Richard Hawley - Further (2019) Recensione<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhmFTOX8lb_Tn4MeOcDFvBYmDouhIlTSSulida-1y3mHHdtuwUERIMLyDog3kOYVoTYCaqfnJIQWhTic5E8zy-5kGIIpsyt2yKLXNz1gTtFtxvYrJdjirIayXlCH3KYEHSpIZ1LiHF442jI/s1600/Richard+Hawley.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1000" data-original-width="1000" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhmFTOX8lb_Tn4MeOcDFvBYmDouhIlTSSulida-1y3mHHdtuwUERIMLyDog3kOYVoTYCaqfnJIQWhTic5E8zy-5kGIIpsyt2yKLXNz1gTtFtxvYrJdjirIayXlCH3KYEHSpIZ1LiHF442jI/s320/Richard+Hawley.jpg" width="320" /></a></div>
<h2>
<br /></h2>
<h2>
Da
poco più di un mese è uscito <i>Further</i>,
ottavo lavoro in studio di Richard Hawley.
<iframe allow="accelerometer; autoplay; encrypted-media; gyroscope; picture-in-picture" allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="https://www.youtube.com/embed/Lwj6SjKBweU" width="560"></iframe>
</h2>
Diciamolo
subito, <b>Richard Hawley </b>è un culto buono non per pochissimi, ma sicuramente non
per tutti. Dopo i brevi fasti <i style="mso-bidi-font-style: normal;"><b>brit pop</b></i>
coi <b>Longpipes</b>, con tanto di derive da rockstar e salvataggio in extremis grazie
ai cugini <b>Pulp</b>, soprattutto ad opera del fraterno amico <b>Jarvis Cocker</b>, il
nostro ha avviato una carriera solista all’insegna del basso profilo e della
grande qualità.<br />
<div class="MsoNormal">
<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Le
ballate soft, la chitarra dal riverbero anni ’50, la <b>voce da <i style="mso-bidi-font-style: normal;">crooner</i></b> e l’aspetto dimesso sono stati
da subito i suoi marchi di fabbrica; le sue canzoni da sempre narrano piccole
storie e luoghi, specie della sua amata Sheffield, e hanno fatto sì che gli si
creasse attorno uno zoccolo duro di fan affezionati.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Ora,
lasciatemelo dire, i fan affezionati sono una bellissima cosa. Almeno fino a
quando non decidi di cambiare qualche virgola al tuo stile consolidato.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
È
quello che capita con questo<b> <i style="mso-bidi-font-style: normal;">Further</i></b>.
Per chi scrive, il lavoro è un riuscitissimo passo avanti – e <i style="mso-bidi-font-style: normal;">Further</i> vuol dire proprio questo – verso
la giusta evoluzione di un artista, e questo a molti fan non è piaciuto.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Eppure
l’album è assolutamente in linea con la qualità a cui Hawley ci ha abituati; i
cambiamenti sono in alcuni pezzi sicuramente più <i style="mso-bidi-font-style: normal;">up tempo</i> e mossi del solito. Nell’aumentato tono delle chitarre in
alcuni frangenti. Eppure la voce da <i style="mso-bidi-font-style: normal;">crooner
</i>di Richard è sempre bellissima e suggestiva, anzi è forse migliorata con la
piena maturità. Le melodie – ascoltate <i style="mso-bidi-font-style: normal;">Alone</i>,
per dire – sono sempre quelle <i style="mso-bidi-font-style: normal;">catchy</i>
e retrò dei tempi di <i style="mso-bidi-font-style: normal;">Coles Corner</i>.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<i style="mso-bidi-font-style: normal;">Further</i> parte subito col pedale
sull’acceleratore con <i style="mso-bidi-font-style: normal;">Off My Mind</i>,
pezzo che riprende atmosfere <i style="mso-bidi-font-style: normal;">brit pop</i>,
con una bellissima parte di chitarra dal suono assai saturo. <i style="mso-bidi-font-style: normal;">Alone </i>sfoggia a sua volta un
arrangiamento <i style="mso-bidi-font-style: normal;">rockeggiante</i> su una
melodia di rara bellezza. Sembra quasi di ascoltare il Morrissey solista di <i style="mso-bidi-font-style: normal;">You Are The Quarry</i>.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<i style="mso-bidi-font-style: normal;">My Little Treasures</i> permette di tirare il fiato
con un brano dall’andamento più tipico dello stile di Hawley; siamo dalle parti
di The Divine Comedy, con un ritornello accattivante che si apre all’improvviso
come uno squarcio di sole in una <i style="mso-bidi-font-style: normal;">battistiana</i>
giornata uggiosa. <o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<i style="mso-bidi-font-style: normal;">Further</i> ed <i style="mso-bidi-font-style: normal;">Emilina Says</i> sono di nuovo due pezzi classici, dal ritmo piuttosto
blando e che accontentano i fan della prima ora. <i style="mso-bidi-font-style: normal;">Is There A Pill?</i> è una ballata più strutturata nell’arrangiamento e
sfoggia una di quelle melodie che giureresti di aver già sentito ma che non
riesci ad afferrare – ma che una volta afferrata ricorda <i style="mso-bidi-font-style: normal;">Sunday Morning</i> dei Velvet Underground.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<i style="mso-bidi-font-style: normal;">Galley Girl</i> è una robusta incursione
nel country, genere caro al nostro. L’atmosfera è quasi da colonna sonora
western – avete presente la <i style="mso-bidi-font-style: normal;">Rawhide </i>resa
celebre dai Blues Brothers ?– e così la chitarra ispirata di Richard. La
melodia è talmente immediata che mi sono sorpreso a canticchiarla durante il
primo ascolto.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
L’album
scivola via con qualche altra ballata classica, una su tutte <i style="mso-bidi-font-style: normal;">Lonely, </i>che pare uscita dai Fleetwood
Mac, del periodo blues-pop di Peter Green, e <i style="mso-bidi-font-style: normal;">Time Is</i>, particolare incrocio tra gli Stones e le svisate pseudo
blues che gli Oasis usavano a volte inserire nei loro album; forse il pezzo più
debole di un lavoro che a me è piaciuto.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Perché
se c’è sempre bisogno di artisti che portino innovazione nel rock, a volte si
sente la necessità di tornare a casa.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Ecco,
ascoltare un nuovo lavoro di Richard Hawley è come tornare a casa.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
E
non è poco. <o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<b>Voto: 7</b></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<br />
<iframe allow="encrypted-media" allowtransparency="true" frameborder="0" height="380" src="https://open.spotify.com/embed/album/6Y05ozfmylDBcvNvuPEnYL" width="300"></iframe>Andrea La Roverehttp://www.blogger.com/profile/06660947487001818837noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7255051603608876842.post-86590626441942275022019-07-12T14:04:00.001+02:002019-07-12T14:04:56.783+02:00Yngwie Malmsteen - Blue Lightning (2019) Recensione<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhMdRAGyOwSwsc7khHNivqSXekTTMSgaOu-9YkGRKvFeejswN1WalWuLUgS_RsBTsB60N5dkfSWrHlixLkGfH0-M3NwwGiYgkQewDDq5W4Op0GCQj2Mbb-u8wAird73Q7es3i5w_xHd-3bL/s1600/Malmsteen.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="300" data-original-width="300" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhMdRAGyOwSwsc7khHNivqSXekTTMSgaOu-9YkGRKvFeejswN1WalWuLUgS_RsBTsB60N5dkfSWrHlixLkGfH0-M3NwwGiYgkQewDDq5W4Op0GCQj2Mbb-u8wAird73Q7es3i5w_xHd-3bL/s1600/Malmsteen.jpg" /></a></div>
<iframe allow="accelerometer; autoplay; encrypted-media; gyroscope; picture-in-picture" allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="https://www.youtube.com/embed/OpuuFp1oPBE" width="560"></iframe>
<br />
<h2>
</h2>
<h2>
Lo
ammetto, finora nella mia carriera di fruitore compulsivo di musica e di
occasionale recensore, la più grande curiosità che covavo su Yngwie Malmsteen
era di sapere come stracacchio si pronunciasse il suo nome. </h2>
<div class="MsoNormal">
Questo fino a
quando, in modo piuttosto casuale, sono venuto a conoscenza dell’uscita di <b><i>Blue
Lightning</i></b>, nientemeno che un <b>disco blues</b> del virtuoso della sei corde.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<b><i>Blue
Lightining</i></b>, diciamolo subito, è un disco <b>importantissimo </b>per il blues e il rock
blues. È infatti il disco che <b>stabilisce definitivamente come non si debba fare
un disco di blues. </b><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Il
blues è un genere seminale, con la sua struttura originale e le sue evoluzioni
ha dato vita praticamente a tutto quello che consideriamo – con una certa
superficialità – rock. Non ci sarebbe stato il rock’n’roll di <b>Elvis </b>e <b>Chuck
Berry</b>, non sarebbe esistito il <b><i>british blues</i></b> e, senza il chitarrismo elettrico
del <b><i>Chicago Blues</i></b>, <b>Jimmy Page</b> e<b> Jeff Beck</b> probabilmente a quest’ora sarebbero
operai in pensione.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Il
blues è sempre stato il genere del <b><i>feeling</i></b> per eccellenza, quello dove bastava
mettere insieme un manico con una scatola di sigari e qualche corda, sedersi
sul cadente porticato di qualche bettola nel <b>Mississipi </b>e, magari a digiuno di
qualsiasi tecnica ma con tanto da raccontare, e si poteva dar vita a piccoli
capolavori.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Bene,
vi chiederete, cosa c’entra in tutto ciò il buon Yngwee? Nulla, dite?<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Perfetto,
risposta esatta!<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<i>Blue
Lightning </i>rivisita otto superclassici, alternati a quattro inediti che si
muovono sulla falsariga, con la tonitruante chitarra del nostro e la sua –
discutibile – vocalità.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Dopo
l’attacco con la <i>title track</i>, <b><i>Foxy Lady</i></b> e <b><i>Demon’s Eye</i></b>, rispettivamente da <b>Jimi
Hendrix</b> e <b>Deep Purple</b>, fanno capire su cosa si basi il lavoro: il nulla, per
l’appunto. I pezzi vengono trattati dalla sapiente, si fa per dire, mano di
Malmsteen: <b>cascate di note e virtuosismi </b>fino al parossismo. Uno psicologo
certo troverebbe interessante studiare questa necessità di riempire ogni spazio
con note che, peraltro, poco hanno a che vedere col blues, unita a un modo
tronfio e auto celebrativo di porsi – tra sterminate collezioni di chitarre,
Ferrari in bella mostra, ville lussuose e camicie aperte sul torace – da far
invidia a una puntata del <b><i>Boss delle cerimonie</i></b>.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgSMVCVCltVaQFOach09-km6d9Jn2CoCj6_7xGeUVOFEQcaxmtC3dUc0hKhwNL4KqNbbXXnt074TyPzWJJSMu6HuJK-OMiyMQCAOAI4GSIDPyU6raExwmgHfhV02tbK-FZsH5xv3c2NyOZ4/s1600/Malmsteen1.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="675" data-original-width="675" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgSMVCVCltVaQFOach09-km6d9Jn2CoCj6_7xGeUVOFEQcaxmtC3dUc0hKhwNL4KqNbbXXnt074TyPzWJJSMu6HuJK-OMiyMQCAOAI4GSIDPyU6raExwmgHfhV02tbK-FZsH5xv3c2NyOZ4/s320/Malmsteen1.jpg" width="320" /></a></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
Si
procede col massacro di altri classici; ce n’è per tutti, dal bellissimo <i>slow
</i><b><i>Blue Jean Blues</i></b> degli <b>ZZTop</b> – forse il meno peggio – ai <b>Beatles</b> e ai <b>Rolling
Stones,</b> fino al pezzo che non può mancare nel repertorio di qualsiasi
chitarrista elettrico, che sia un mostro sacro come Yngwee Malmsteen o uno
strimpellatore della domenica: <b><i>Smoke on the water</i></b>.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Ma
niente, più si procede nell’ascolto e più si è investiti da fiumi di note che,
oltre all’<b>onanistico </b>piacere che speriamo ne tragga lo svedese, lasciano
tramortito lo sventurato ascoltatore; io ho dovuto dividere l’ascolto in due
riprese, avevo fastidio fisico a sentire tale sproloquio musicale. <o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Sembra
di sentire qualche allievo chitarrista <b><i>fusion</i></b> che vuole impressionare il suo
maestro cercando di riempire qualsiasi spazio tra una nota e l’altra; certo,
Yngwee lo fa benissimo, con una tecnica irraggiungibile.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
E
per questo il lavoro assume grande importanza, proprio nel dimostrare che il
virtuosismo tecnico assolutamente non basti per realizzare un buon prodotto
artistico. Anzi, in questo caso – e chi si accosta al blues non lo dimentichi –
l’effetto è totalmente opposto, tanto da sfiorare pericolosamente la
caricatura.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<b>Voto:
1</b><span style="font-size: 14pt;"><o:p></o:p></span></div>
<br />
<iframe allow="encrypted-media" allowtransparency="true" frameborder="0" height="380" src="https://open.spotify.com/embed/album/2rpIuM599YNVjjV54Hvj65" width="300"></iframe>Andrea La Roverehttp://www.blogger.com/profile/06660947487001818837noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7255051603608876842.post-29960114452552274942019-07-07T21:53:00.001+02:002019-07-07T21:53:17.375+02:00Mattiel - Satis Factory (2019) Recensione<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg4XdbLPoij5HfJQJcLHZ6AVfIw9LGD1htQJgHER_Wk99bu7wteCrrb2pjAJ75MUUIp4i_-CT0i9kTHn-MhmgxFphUQUSEe89etUfcKxlkT97RQuksSo67TgBZhqDZu4kgHjGdg5GWrPmuE/s1600/Mattiel.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1200" data-original-width="1200" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg4XdbLPoij5HfJQJcLHZ6AVfIw9LGD1htQJgHER_Wk99bu7wteCrrb2pjAJ75MUUIp4i_-CT0i9kTHn-MhmgxFphUQUSEe89etUfcKxlkT97RQuksSo67TgBZhqDZu4kgHjGdg5GWrPmuE/s320/Mattiel.jpg" width="320" /></a></div>
<h2>
</h2>
<h2>
Nemmeno il tempo di parlarvi – in ritardo – del suo esordio
qualche tempo fa, ed ecco l’atteso <i>sophomore </i>di <a href="http://alrartblog.blogspot.com/2019/03/mattiel-st-2018-recensione.html" target="_blank">Mattiel</a>, l’ex <i>segreto meglio
custodito di Atlanta</i>.</h2>
<iframe allow="accelerometer; autoplay; encrypted-media; gyroscope; picture-in-picture" allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="https://www.youtube.com/embed/UsEEKkHOq_g" width="560"></iframe>
<br />
<div class="MsoNormal">
<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
Dopo l’<b><i>endorsement</i></b> niente meno che di<b> Jack White </b>e quello –
ben più prestigioso – del sottoscritto, <b>Atina Mattiel Brown</b>, la ragazza che non
sa giocare a tennis ma che sa fare un sacco di altre cose, esce con <b><i>Satis
Factory.</i></b><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Il secondo lavoro si presenta come l’ideale continuo dell’esordio
che portava semplicemente il nome di battaglia della nostra, magari con qualche
strizzatina d’occhio in più al <b><i>mainstream</i></b>, ma che suona comunque come se fosse
stato inciso almeno quarantacinque anni fa. Un gran bel complimento, da queste
parti.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Se la foto di copertina sembra - con discreta preveggenza -
scattata il giorno prima del disastro di <b>Chernobyl</b>, la musica è effettivamente
<i>atomica.</i> L’attacco del disco è senza quartiere con un tris di pezzi forti; <b><i>Til’
the moment of death </i></b>apre le danze aggiornando le lezioni<b><i> beat e garage</i></b> che alla
fine dei <b><i>sixties</i></b> cambiarono per sempre la musica pop, <b><i>Rescue You</i></b> prosegue sulla
stessa linea proponendo un riff killer rock blues, per poi fare spazio alla
sfiziosa <b><i>Je ne me connais pas,</i></b> cantata per metà in inglese e per metà in
francese. Certo, l’attacco ricorda – tantissimo – <b><i>Walkin’ on the sun</i></b> delle
meteore <b>Smash Mouth</b>, ma l’andamento del pezzo fa sì che la brava Mattiel si
faccia subito perdonare. <b><i>Food for tought</i></b> propone un sorprendente rap di prima
del rap, un po’ alla<b><i> Magnificient Seven</i></b> dei <b>Clash</b>, dove la nostra mette in
mostra un invidiabile <b><i>flow </i></b>su un arrangiamento che pare uscito da<b><i> Highway 61
Revisited</i></b> di <b>Bob Dylan</b>. <b><i>Keep The Change </i></b>sorprende a sua volta per le atmosfere
indie, mentre la seguente<b><i> Millionaire</i></b> è un bel pezzo che permette di tirare il
fiato con atmosfere molto <i>à la</i> <b>Velvet Underground</b>.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Qui, fatalmente, il lavoro tende a una leggera flessione,
nonostante <b><i>Populonia</i></b> rimanga ancora un bel pezzo che sembra citare nel riff e
nelle melodie i <b>Kula Shaker </b>più nostalgici, ovvero gli unici ad aver senso di
esistere. I brani successivi si confermano su buoni livelli, dal country di<b><i>
Blisters </i></b>al rock ‘n’ roll scatenato di <b><i>Berlin Weekend</i></b>, ma senza aggiungere
colpi da K.O. all’album.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Insomma, un delicato-secondo-album, come si dice sempre in
questi casi, che conferma Mattiel su livelli di pura eccellenza.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<b>Voto: 7.5</b><o:p></o:p><br />
<b><br /></b></div>
<br />
<iframe allowtransparency="true" frameborder="0" height="350" scrolling="no" src="https://www.deezer.com/plugins/player?format=classic&autoplay=false&playlist=true&width=700&height=350&color=ff0000&layout=dark&size=medium&type=album&id=91959062&app_id=1" width="700"></iframe>Andrea La Roverehttp://www.blogger.com/profile/06660947487001818837noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7255051603608876842.post-58144021587671722012019-07-01T15:02:00.003+02:002019-07-01T15:02:41.737+02:00The Black Keys - Let's Rock (2019) Recensione<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhn1IqDWbdQAPnkMq9lS_UaukmcE1ndj9JbYtqVu9mHaCEadeUCBZ6JEwI4UlbiWrHKpQrwY5YVK8hQzm8sRzAx3WOZ4v-RCFe4x7xo6a1Ybcu-mzT939kZrNx9MN185fC-bKr8DeZr2v-8/s1600/let-s-rock.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="875" data-original-width="875" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhn1IqDWbdQAPnkMq9lS_UaukmcE1ndj9JbYtqVu9mHaCEadeUCBZ6JEwI4UlbiWrHKpQrwY5YVK8hQzm8sRzAx3WOZ4v-RCFe4x7xo6a1Ybcu-mzT939kZrNx9MN185fC-bKr8DeZr2v-8/s320/let-s-rock.jpg" width="320" /></a></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<h2>
Dopo
5 anni di separazione, occupati specie da <b>Dan Auerbach </b>con una miriade di
progetti più o meno riusciti, tornano i <b>Black Keys</b> con <b><i>Let’s Rock</i></b>.</h2>
<o:p></o:p></div>
<iframe allow="accelerometer; autoplay; encrypted-media; gyroscope; picture-in-picture" allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="https://www.youtube.com/embed/Jknn7MMszNo" width="560"></iframe>
<br />
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
Il
<b><i>battage</i></b> è quello consueto dei ritorni di band di grande successo, ovvero
roboanti dichiarazioni sul fatto che una volta entrati in studio sembrava non
fosse passato un solo giorno dall’ultima volta e sul ritorno alla musica che si
faceva a 16 anni. Le riviste <i><b>mainstream</b></i>, masticato, digerito e risputato quello
che una volta era un fenomeno <b><i>alt-blues</i></b> nato in <b>garage</b>, gridano ovviamente al
capolavoro col rock che è ancora vivo, eccome. Altro che morto, <i>tsk tsk</i>.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
La
semplice verità che esce fuori ascoltando <i>Let’s Rock</i> è però quella di un disco
fortemente interlocutorio, incerto tra il robusto e grezzo rock blues degli
esordi e le sempre più frequenti strizzate d’occhio al mercato dei lavori più
maturi. <b>Auerbach e Patrick Carney </b>sono due quasi quarantenni, accasati e milionari,
ormai ben lontani dai furori da <b><i>swamp blues garage</i></b> degli esordi, e ci mancherebbe.
Il problema è che l’album rischia di scontentare i facinorosi della prima ora e
quelli che ritengono la musica poco più che un sottofondo.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<b><i>Shine
a little light </i></b>apre il lavoro in modo fortemente ritmico e promettente, sembra quasi una
cover virata al blues di <b><i>Robot Rock</i></b> dei <b>Daft Punk</b>, salvo poi aprirsi in una
parte cantata country pop. Forse il pezzo migliore della raccolta; discutibile
magari porlo in apertura. <b><i>Eagle Birds </i></b>è a sua volta un buon pezzo; l’andamento
riprende un po’ le atmosfere <b><i>down home </i></b>alla<b> Junior Kimbrough</b> sempre care a Dan
Auerbach e, nonostante il ritornello banalizzi un po’ il tutto, il lavoro alla
chitarra è encomiabile. Nessun pezzo della raccolta, va detto, supera i quattro
minuti, quindi inutile aspettarsi grandi evoluzioni strumentali.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<b><i>Lo/Hi
</i></b>è il singolo in giro già da qualche mese, accattivante ma dove la formula blues
è davvero troppo annacquata per i veri appassionati, tra i<b> Dire Straits </b>più
commerciali e una discutibile rivisitazione di <b><i>Spirit in the sky</i></b>.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<b><i>Walk
across the water </i></b>fa di nuovo venire in mente <b>Norman Greenbaum </b>e la sua <i>Spirit
in the sky</i> e, almeno secondo me, capiterà ancora lungo l’album. E la cosa,
sempre per chi scrive, non è troppo lusinghiera e si traduce in un bel <i>riff
</i>blues sprecato e diluito in una melodia fin troppo zuccherosa. Dopo la
passabile <b><i>Tell Me Lies</i></b> la cosa si ripete con <b><i>Every little thing</i></b>, dove un
promettente avvio con una chitarra piena di<b><i> feedback</i></b> alla <b>Clapton </b>periodo
<b>Cream</b>, viene presto annacquata nella consueta formula soft rock.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Da
qui in poi si apre un siparietto country con <b><i>Get yourself together,</i></b> sorta di
<b><i>Lay down sally 2.0</i></b> e <b><i>Sit Around and miss you</i></b>, che pare uscita dal canzoniere di<b>
Father John Misty</b> e/o dei <b>Creedence Clearwater Revival</b>, con a solo che
fotocopia <b>J.J.Cale</b>. Carine, anche se leggermente disorganiche all’interno di
<i>Let’s Rock</i>.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Con
la successiva <b><i>Go </i></b>si passa ai fondi di magazzino, con l’apice al contrario di
<b><i>Breaking Down,</i></b> con un inspiegabile intro al<b> sitar</b>, breve intermezzo funk e
resto del pezzo che sembra una versione depotenziata di <i>Shine a little light</i>.
Sinceramente sarebbe stato forse meglio chiudere coi primi otto pezzi, magari
un po’ più lavorati e ampliati strumentalmente, a costo di offendere le
cerumate orecchie del pubblico mainstream.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Insomma,
i <b>Black Keys</b> nel 2019 sono questi, una band divisa tra l’anima più nera e
quella più legata al mercato, come del resto è successo prima di loro a decine
di artisti e non credo che a questo punto della carriera vedremo più i due,
Auerbach specialmente, prendere per le corna i demoni blues che permeavano la
loro musica gli inizi.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<b>Voto:
6</b><span style="font-size: 14pt;"><o:p></o:p></span><br />
<b><br /></b></div>
<br />
<iframe allow="encrypted-media" allowtransparency="true" frameborder="0" height="380" src="https://open.spotify.com/embed/album/0aA9rYw8PEv9G7tVIJ9dKg" width="300"></iframe>Andrea La Roverehttp://www.blogger.com/profile/06660947487001818837noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7255051603608876842.post-38943993635260703082019-06-27T14:28:00.002+02:002019-06-27T14:28:39.712+02:00Orville Peck - Pony (2019) Recensione<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgiA4q8Ky7G4tMDm9CbS-PN3l5XHPhJPdokMwaTqtFb8rQTUdMhz5Z5u0v41DOigP-LxwHR8Ax_-MQWgR1oCrtFs2KOd2lBJJuuri0xUiF2PNgegg6AhRp-atAP3Oq-DOTwSCKX8EBqbWsx/s1600/Orville+Peck+2.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1200" data-original-width="1200" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgiA4q8Ky7G4tMDm9CbS-PN3l5XHPhJPdokMwaTqtFb8rQTUdMhz5Z5u0v41DOigP-LxwHR8Ax_-MQWgR1oCrtFs2KOd2lBJJuuri0xUiF2PNgegg6AhRp-atAP3Oq-DOTwSCKX8EBqbWsx/s320/Orville+Peck+2.jpg" width="320" /></a></div>
<h2>
</h2>
<h2>
Nell’epoca
liquida e di infatuazioni usa e getta da social non ci sono più i buoni vecchi
casi del momento. Altrimenti, ne siamo sicuri, Orville Peck sarebbe il caso di
questa prima parte del 2019.</h2>
<iframe allow="accelerometer; autoplay; encrypted-media; gyroscope; picture-in-picture" allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="https://www.youtube.com/embed/q3esGD6lcMM" width="560"></iframe>
<br />
<div class="MsoNormal">
<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
Spontanea
o meno che sia – e almeno qui interessa più il risultato del gossip – l’immagine
di Orville risulta congegnata davvero perfettamente. Gran parte dell’efficacia<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>sta nel <b><i>corto circuito cognitivo </i></b>causato
dalla commistione di un mondo, quello dei cowboy, che più macho e sessista non
si potrebbe, con chiarissime inflessioni <i>gay friendly</i>. Una sorta di Village
People in salsa<i> alt country </i>e più seria.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Ovviamente,
se ne stiamo qui a parlare, oltre l’accattivante immagine si cela molto di più.
La voce, innanzitutto, di Orville Peck: profonda, duttile e mai sopra le righe.
Un mix letale tra <b>Elvis Presley</b> e <b>Johnny Cash</b>. Poi la musica. L’abbiamo
definita <i>alt-country,</i> ma le atmosfere a cui si rende omaggio in <b><i>Pony </i></b>sono molte
di più. La scrittura, malinconica e con un immancabile fondo di tristezza –
anche negli episodi più disinvolti – ricorda<b> Morrissey,</b> ma a me è venuto in
mente anche<b> John Grant</b>, specie nel periodo degli <b>Czars</b>; gli arrangiamenti
parlano di base il linguaggio del country, con tante di chitarre <b><i>twangy,</i></b>
tuttavia non mancano suggestioni più europee, dallo <b><i>shoegaze </i></b>alla<b><i> post wave
</i></b>inglese.<o:p></o:p></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEju68-A1Mq3a7nZyIw2ItQNn7wARrz-mMOZUYAEp148SLoTXryrDu7lhl1nDwQIroX8aLYJVa9Q7fzUq-p9YtmnYyoRyz5-glteIm5Lnu3SGVwhg7eZ6pCj9llDj5KxSmrJNhNppCJ8mKIx/s1600/Orville+Peck.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="640" data-original-width="960" height="213" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEju68-A1Mq3a7nZyIw2ItQNn7wARrz-mMOZUYAEp148SLoTXryrDu7lhl1nDwQIroX8aLYJVa9Q7fzUq-p9YtmnYyoRyz5-glteIm5Lnu3SGVwhg7eZ6pCj9llDj5KxSmrJNhNppCJ8mKIx/s320/Orville+Peck.jpg" width="320" /></a></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
E,
soprattutto, le canzoni. In <i>Pony</i> sono presenti alcuni pezzi che rimarranno
nella storia del 2019. L’apertura di <b><i>Dead Of <span style="mso-spacerun: yes;"> </span>Night,</i></b> vero classico senza tempo che avrebbero
potuto cantare indistintamente <b>Elvis, Johnny Cash, Roy Orbison o Chris Isaak</b>.
Sarebbe stato in ogni caso un capolavoro.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
L’improvvisa
accelerazione di <b><i>Buffalo Run</i></b>, quasi da <b><i>rave up</i></b> in stile <b>Yardbirds</b>. La quasi
<i>post wave </i>di <b><i>Queen Of The Rodeo</i></b>; le ballate troppo classiche per essere vere di
<b><i>Kansas</i></b> e<b><i> Roses Are Falling.</i></b> <i>Kansas</i> sembra uscita – letteralmente grazie agli
effetti sonori – da una vecchia radio montata su una Chevy del ’57, <i>Roses Are
Falling </i>pare quasi un plagio dell’immortale <i><b>Sleep Walk</b> </i>di <b>Santo & Johnny</b>,
con l’aggiunta del cantato.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<b><i>Take
You Back</i></b> è un altro passaggio ad alto tasso di country, con tanto di parte
fischiettata.<b><i> Big Sky </i></b>e <b><i>Hope To Die</i></b> roprendo no il discorso di <i>Dead Of Night </i>e
soprattutto nel caso della prima, siamo di fronte almeno ad un altro
capolavoro.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<i>Pony</i>
di Orville Peck è un disco che si lascia ascoltare a ripetizione, che lascia
soddisfatti e con un’immediata curiosità per il seguito.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Mentre
tutti sono distratti dall’ennesimo “<i>capolavoro</i>” di Bruce Springsteen, l’America
più bella e dolente ce la mostra questo misterioso canadese.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Uno
dei dischi dell’anno.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<b>Voto:
8.5</b><o:p></o:p><br />
<b><br /></b>
<b><br /></b></div>
<br />
<iframe allow="encrypted-media" allowtransparency="true" frameborder="0" height="380" src="https://open.spotify.com/embed/album/7Jn1h8E5aT96pdyrPxrLWi" width="300"></iframe>
Andrea La Roverehttp://www.blogger.com/profile/06660947487001818837noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7255051603608876842.post-48024676216996788452019-06-20T15:25:00.003+02:002019-06-21T12:16:58.139+02:00Black Mirror, un ripasso e la Quinta Stagione<br />
<h2 style="margin-right: 41.1pt; text-align: justify;">
Da qualche settimana è
disponibile su Netflix la quinta stagione di <i>Black Mirror</i>, la serie che più di
ogni altra ha ridefinito il concetto di serie TV negli <i>anni ’10</i>.</h2>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiQZG99oKvTeBTn-HEtdq66sldJYwISEo1och_DZVcqj_TqjtFDZXct0VvzrCK3O0sqD8Sk-XBcpXUW_QwSCWdGtTRXZNWsUfcuRmKVWjWiUYJeD69lovX4LMCGi6m9JrsZ3JSANaSvz9Da/s1600/Black_mir.png" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="640" data-original-width="1280" height="160" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiQZG99oKvTeBTn-HEtdq66sldJYwISEo1och_DZVcqj_TqjtFDZXct0VvzrCK3O0sqD8Sk-XBcpXUW_QwSCWdGtTRXZNWsUfcuRmKVWjWiUYJeD69lovX4LMCGi6m9JrsZ3JSANaSvz9Da/s320/Black_mir.png" width="320" /></a></div>
<div>
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-right: 41.1pt; text-align: justify;">
<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-right: 41.1pt; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-right: 41.1pt; text-align: justify;">
Appena uscite le prime
indiscrezioni, il fatto che la nuova stagione fosse composta da tre soli
episodi, segnando il ritorno alle origini delle prime due serie, aveva fatto
ben sperare i fan della prima ora.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-right: 41.1pt; text-align: justify;">
Speranza vana.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-right: 41.1pt; text-align: justify;">
Ma andiamo con ordine. <b><i>Black
Mirror </i></b>nasce originariamente nel 2011 dalla fervida immaginazione di <b>Charlie
Brooker</b> in Inghilterra ed è prodotto da<b> Endemol</b>. La serie rilancia il <b><i>format</i></b>
antologico che negli anni ’60 aveva fatto la fortuna – se non il mito – di <b><i>Ai
Confini Della Realtà </i></b>e, in misura leggermente minore, <b><i>Alfred Hitchcock
Presenta</i></b>. Una scelta di per sé coraggiosa, in tempi in cui si cerca di
fidelizzare, quando non drogare, il telespettatore con stagioni sempre più
lunghe, dove la snervante evoluzione dei personaggi e i <b><i>cliffhanger</i></b> dell’ultimo
episodio hanno il solo obiettivo di creare una vera e propria dipendenza.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-right: 41.1pt; text-align: justify;">
Il tema è la deriva della
tecnologia e alcuni episodi risultano in questo senso profetici in modo
inquietante. L’obiettivo è un po’ quello di mettere in guardia dall’eccessiva
invadenza delle nuove tecnologie e delle dinamiche create dai nuovi media,
specialmente i social, e dalla dipendenza da smartphone, laptop e quant’altro.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-right: 41.1pt; text-align: justify;">
Dopo le prime due stagioni
di tre episodi l’una, più un curioso omaggio natalizio (col mitico <b>Don Draper</b>
di <b><i>Mad Men</i></b>), la produzione passa nelle mani di <b>Netflix</b> e qui iniziano i guai.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-right: 41.1pt; text-align: justify;">
I sette episodi pre Netflix,
più o meno riusciti, hanno alcune caratteristiche che li renderanno archetipi.
La qualità insuperabile degli <b><i>script </i></b>e degli attori; l’incredibile senso di
inquietudine che lasciano nello spettatore; il fatto di tracciare un prima e un
dopo nel mondo delle serie TV; le atmosfere adorabilmente <b><i>british.</i></b><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-right: 41.1pt; text-align: justify;">
Il primo episodio, <b><i>Messaggio
al Primo Ministro</i></b>, è un vero pugno nello stomaco. <b><i>15 milioni di celebrità</i></b> e
<b><i>Orso Bianco</i></b> sviscerano a dovere i pericoli e le derive possibili – se non già
realizzate – di talent e reality show. <b><i>Ricordi pericolosi</i></b> ci mette in guardia
sui rischi dell’overdose di memoria virtuale a cui siamo sottoposti e sul
sempre più dilagante effetto nostalgia che a volte impedisce di andare avanti
nella vita di tutti i giorni. <b><i>Torna da me </i></b>affronta i risvolti etici dell'intelligenza artificiale con sensibiltà in un episodio tra i migliori, tanto angosciante quanto poetico. <b><i>Vota Waldo</i></b>, per certi versi, sembra anticipare
certi tratti della politica che sarebbe venuta di lì a poco, anche – ahimé – in
Italia.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-right: 41.1pt; text-align: justify;">
Si può parlare, a buona
ragione, di un vero e proprio <b>capolavoro</b>.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-right: 41.1pt; text-align: justify;">
Il passaggio a Netflix vira
da subito la priorità dalla qualità – che pure inizialmente si mantiene alta –
alla quantità. Gli episodi diventano sei per stagione e la formula viene
pericolosamente diluita. Una certa americanizzazione del format salta subito
all’occhio nell’estremizzare certi tratti già da <b><i>Caduta Libera</i></b>, distopia sull’eccessiva
invadenza dei social, ottimamente realizzata ma fin troppo caricaturale e
didascalica nel proporre il suo messaggio. Come se gli spettatori – in un
tentativo di allargare la platea – avessero bisogno di eccessive spiegazioni
sui passaggi della trama. Non mancano anche nella terza e quarta stagione
episodi di gran classe, dal quasi horror di <b><i>Giochi Pericolosi</i></b> alla delicata
poesia di <b><i>San Junipero</i></b>, dalla distopia militare di <b><i>Gli uomini e il fuoco</i></b> alla
caratterizzazione psicologica di <b><i>Arkangel</i></b>. Eppure, come detto, qua e là
qualcosa scricchiola. L’eccessiva durata di <b><i>Odio Universale</i></b>, la caricatura dei
nerd di <b><i>USS Callister,</i></b> l’eccessiva complessità di <b><i>Hang the DJ</i></b>, la noia vera e
propria della caccia all’uomo di <b><i>Metalhead</i></b> e l’autoreferenzialità del
conclusivo <b><i>Black Museum</i></b>.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-right: 41.1pt; text-align: justify;">
E siamo ai giorni nostri.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-right: 41.1pt; text-align: justify;">
La quinta stagione
inevitabilmente portava<i> Black Mirror </i>a un bivio: qualità dura e pura delle
prime due stagioni o puro entairtment sulla scia di terza e quarta?<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-right: 41.1pt; text-align: justify;">
La scelta – purtroppo – è stata
palesemente la seconda.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-right: 41.1pt; text-align: justify;">
Il primo episodio mi ha
lasciato davvero interdetto. Questo perché non avevo visto gli altri due.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-right: 41.1pt; text-align: justify;">
<b><i>Striking Vipers </i></b>indaga la
dipendenza dai videogiochi nei quarantenni e, di nuovo, i rischi di intelligenza
artificiale e vita virtuale. Nulla di nuovo sotto il sole. La qualità formale
rimane alta, col tipico stile asciutto e personaggi giovani, belli,
insoddisfatti e, per così dire, <i>indietronici</i>. La storia è debolissima e man
mano sempre più pretestuosa. La battuta sul personaggio che si accoppia con l'orso<b><i>
Tundra</i></b> del videogioco, da <b><i>cult</i></b> nelle intenzioni, classifica in poche parole l’episodio:
un tentativo goffo e a tratti volgare di ridare lustro a <i>Black Mirror.</i><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-right: 41.1pt; text-align: justify;">
<b><i>Smithereens</i></b> è il consueto
attacco ai social network. L’episodio è paradigmatico di come la serie sia
passata da inquietante <b><i>Cassandra</i></b> a patinata <b>pubblicità progresso</b>. Il pericolo
di cui ci vuole avvertire è davvero quello dell’invasività degli smartphone?
Che controllare le notifiche sui social mentre si guida di notte potrebbe
essere pericoloso? Siamo seri? Per quello basta leggere i giornali, da <i>Black
Mirror</i> ci aspetteremmo storie visionarie, non il personaggio principale che si
dispera rievocando la cazzata fatta come fosse in una pubblicità del Ministero
della Sanità. Inoltre il ritmo è davvero lentissimo e snervante.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-right: 41.1pt; text-align: justify;">
Ma l’indiscussa vetta – è ironia
eh – della quinta stagione è il conclusivo episodio <b><i>Rachel, Jack e Ashley Too</i></b>,
dal titolo <i>raffinatamente</i> fantasioso. La storia può vantare la presenza di un’imbarazzante
<b>Miley Cyrus</b> nella parte di una postar ribelle, isterica e poco dotata
musicalmente. Praticamente sé stessa. Tralasciamo gli infiniti rivolgimenti
della trama che si alternano in un ottovolante di luoghi comuni: la ragazzina in
crisi da trasferimento in una nuova città e <i>high school</i>; la figura della madre
morta sullo sfondo; il padre scienziato svitato ma simpatico; la sorella
ribelle e <i><b>indie</b></i> al punto giusto che però ama la musica di quando Brooker era
giovane; un simpatico robottino; la popstar ribelle, per l’appunto.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-right: 41.1pt; text-align: justify;">
A farla da padrone sono
atmosfere comiche, non si sa quanto volontarie, buchi di sceneggiatura capaci
di attrarre e inghiottire tutta la serie e la sua credibilità e una qualità di
<i>script</i> e recitazione davvero molto imbarazzanti.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-right: 41.1pt; text-align: justify;">
Il momento catartico è
quando il robottino stacca la spina alla popstar in coma. Meglio sarebbe stato
che il buon Charlie Brooker avesse fatto altrettanto con <i>Black Mirror,</i> la sua
creatura. Prima della quinta stagione, possibilmente.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-right: 41.1pt; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-right: 41.1pt; text-align: justify;">
<b>Voti:<o:p></o:p></b></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-right: 41.1pt; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-right: 41.1pt; text-align: justify;">
<b>Stagione 1: 9<o:p></o:p></b></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-right: 41.1pt; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-right: 41.1pt; text-align: justify;">
<b>Stagione 2 + Extra: 9<o:p></o:p></b></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-right: 41.1pt; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-right: 41.1pt; text-align: justify;">
<b>Stagione 3: 7<o:p></o:p></b></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-right: 41.1pt; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-right: 41.1pt; text-align: justify;">
<b>Stagione 4: 6.5<o:p></o:p></b></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-right: 41.1pt; text-align: justify;">
<br /></div>
<div class="MsoNormal" style="margin-right: 41.1pt; text-align: justify;">
<b>Stagione 5: 3</b><span style="font-family: "arial" , "sans-serif"; font-size: 14.0pt;"><o:p></o:p></span></div>
<br />Andrea La Roverehttp://www.blogger.com/profile/06660947487001818837noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7255051603608876842.post-91349330031046241522019-06-14T14:22:00.001+02:002019-06-14T14:22:20.303+02:00Playlist: Rory Gallagher and the Blues<h2>
Il 14 giugno del 1995 se ne andava Rory Gallagher. A soli 48 anni il chitarrista concludeva la sua battaglia contro l'alcol e contro sé stesso, lasciando però un inestimabile patrimonio artistico.</h2>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjy8k3XqlIGvJNCHzBkyH_KtjyUJIcgpS2AJNOFi3z0yerxO5K9ACESn7JFN73DrQBDwGGX7uYelRlvhlnoktP3cIroqGQbGVx06UwUlWgQwnTBvOxKeWa-0DQWuzYxcuF_-X_6j3bTE6_d/s1600/Rory+Gallagher.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="720" data-original-width="1280" height="180" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjy8k3XqlIGvJNCHzBkyH_KtjyUJIcgpS2AJNOFi3z0yerxO5K9ACESn7JFN73DrQBDwGGX7uYelRlvhlnoktP3cIroqGQbGVx06UwUlWgQwnTBvOxKeWa-0DQWuzYxcuF_-X_6j3bTE6_d/s320/Rory+Gallagher.jpg" width="320" /></a></div>
<div style="text-align: center;">
<iframe allow="encrypted-media" allowtransparency="true" frameborder="0" height="380" src="https://open.spotify.com/embed/playlist/4tSW0egppzYoZlsCfNShxm" width="300"></iframe>
</div>
<div>
<br /></div>
<div>
<br /></div>
<div>
Chitarrista versatile e virtuoso, passava con disinvoltura dalla slide alla ritmica, da un suono saturo e vibrante al folk blues acustico degli albori, intrecciando blues, rock e jazz come usava all'epoca, ma sempre con un forte tocco personale che rendeva i suoi pezzi immediatamente riconoscibili. Meno dotato vocalmente, si fece conoscere con i primi due lavori targati Taste - sorta di epigoni dei Cream - per poi passare a una prolifica carriera solista, in cui diede il meglio fino alla metà dei settanta, specie dal vivo.</div>
<div>
La playlist che vi proponiamo è incentrata sul repertorio blues, sicuramente la radice più salda di Rory Gallagher. Due ore di musica, dense di chicche semisconosciute.</div>
<div>
Come sempre, buon ascolto.</div>
<br />
<br />Andrea La Roverehttp://www.blogger.com/profile/06660947487001818837noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7255051603608876842.post-31966564972913542592019-06-13T15:06:00.001+02:002019-06-13T15:08:27.141+02:00Faber Nostrum - AA.VV. (2019) Recensione<br />
<h2>
</h2>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhxrbyYX9Cei0fh7ppHLpXK7fl9cXmrdQ4RS_5GF_ObDBH2fXPYieNf_2MT9vBC_8hOorRp6gMN3E9jekXzE74pUrwGeCyXMxEX_f5tnGKVMQ9JtvfBZK9P7BFjDh71mbSVfraGfYh3r8sO/s1600/faber+nostrum-2.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="800" data-original-width="800" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhxrbyYX9Cei0fh7ppHLpXK7fl9cXmrdQ4RS_5GF_ObDBH2fXPYieNf_2MT9vBC_8hOorRp6gMN3E9jekXzE74pUrwGeCyXMxEX_f5tnGKVMQ9JtvfBZK9P7BFjDh71mbSVfraGfYh3r8sO/s320/faber+nostrum-2.jpg" width="320" /></a></div>
<h2>
</h2>
<h2>
È
uscito da un po’ <i>Faber Nostrum</i>, tentativo coraggioso ma di dubbia opportunità
di coniugare l’<i>ItPop </i>contemporaneo con l’immane e irripetibile opera di
Fabrizio De Andrè. Vediamo come se la sono cavata i vari interpreti.</h2>
<div class="MsoNormal">
<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
Vi
risparmierò i <i>pipponi </i>filosofici sull’<b>utilità</b> di questa operazione: <b>nessuna</b>.
Gli artisti invitati a prendere parte non hanno nemmeno in parte la statura di
<b>De Andrè</b>, e anche se l’avessero poco cambierebbe. L’obiettivo di far conoscere
alle nuove leve il grande cantautore è fuori portata; in tempi di social,
talent e quant’altro, non si ha tempo per ascoltare la musica – spesso di
qualità bassissima – di oggi, figuriamoci per le riscoperte. Chi si appassiona
a De Andrè lo farebbe lo stesso, in genere più per ereditarietà o competenza, e
non con operazioni di questo genere. Il rischio che le cover sembrassero uscite da
una pessima puntata di <b>X-Factor</b> c’era tutto e in alcuni casi si realizza
appieno.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Si
parte con <b><i>Sally</i></b>, riveduta e corretta – via, scherziamo – dai <b>Gazzelle</b>; base
elettro pop, cantato indolente e voce assolutamente inadatta, tra <b>Pupo </b>e
<b>Daniele Groff </b>– fate voi. Tutto sommato, però, sentiremo di peggio.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<b>Voto:
5</b><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Gli
<b>Ex-Otago</b> si cimentano con <b><i>Amore che vieni, amore che vai</i></b> e la sparano davvero
grossa. Base lounge e interpretazione ancora più evanescente del loro solito.
Mortificare così il classico dei classici del loro concittadino è quasi
criminale, ma tant’è.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<b>Voto:
4</b><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<b>Willie
Peyote</b>, ne <b><i>Il Bombarolo</i></b>, si lancia nella<b> più surreale delle imprese</b>: riscrivere
un testo di De Andrè. Qui l’effetto X-Factor è davvero sorprendente, peggio di
un <b>Anastasio </b>qualsiasi, tre minuti di banalità snocciolate senza patemi. <o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<b>Voto:
1</b><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<b><i>Il
suonatore Jones </i></b>è affidato ai <b>Canova,</b> band che forse non farà mai il botto ma
di solida professionalità. La voce che ricorda un po’ Cremonini la fa quasi
sembrare una cover di quest’ultimo, lenta, aderente al modello e un po' ridondante. Comunque piacevole.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<b>Voto:
6.5</b><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<b><i>Canzone
per l’estate</i></b> di <b>Cimini </b>con <b>Lo Stato Sociale</b> è una cover che scivola via senza
lasciare troppe impressioni, se non l’errore consueto di caricare troppo – con un’interpretazione
dalle parti di Rino Gaetano – testi che non ne hanno proprio bisogno.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<b>Voto:
6</b><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<b>I
Ministri</b> si occupano del trattamento di <b><i>Inverno</i></b>, altro classico
irraggiungibile. Il pezzo è abbastanza rispettoso e talmente bello da piacere
anche con una vocalità così palesemente inadatta. Accettabile.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<b>Voto:
6</b><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<b>Colapesce</b>
gioca un po’ d’astuzia con <b><i>La canzone dell’amore perduto,</i></b> dopo aver contraddittoriamente
affermato di odiare le cover di De Andrè. Forse per questo sceglie di
<i>coverizzare</i> la versione di Battiato. E lo fa con un certo <i>charme</i>.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<b>Voto:
6.5<o:p></o:p></b></div>
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<br />
<div class="MsoNormal">
<b><i>Se
ti tagliassero a pezzetti</i></b> affidata a <b>The Leading Guy</b> è forse la sorpresa della
raccolta. Sospeso tra il De Gregori più folk – <b><i>Adelante, adelante </i></b>o<b><i> Il bandito
e il campione</i></b> – Paolo Nutini e The Tallest Man On Earth, il pezzo è forse l’unico
che brilla di luce propria dell’intera raccolta. <b><i>Chapeau</i></b>.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<b>Voto:
7.5<o:p></o:p></b></div>
<div class="MsoNormal">
<b>Motta
</b>si occupa di <b><i>Verranno a chiederti del nostro amore</i></b>. Francesco sa cantare una
sola canzone, ma lo fa bene. Potrebbe quasi essere una definizione della parola<b><i>
stile</i></b>, me ne rendo conto. E così fa con De Andrè, facendo completamente suo il
pezzo.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<b>Voto:
6.5</b><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<b>La
Municipal</b>, duo fratello e sorella pugliese, si prende in carico l’improbabile
incombenza di <i>coverizzare</i> <b><i>La Canzone di Marinella</i></b>, a doppio rischio <i>pestata di
merda</i>, causa versione di <b>Mina</b>. Non se la cavano nemmeno troppo male, ma il
compito era decisamente troppo gravoso.<b><i> Ti piace perdere facile</i></b>.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<b>Voto:
6</b> di incoraggiamento<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<b>Fadi,</b>
crogiuolo di razze italo- africane in salsa romagnola, offre una intensa e
credibilissima versione di <b><i>Rimini</i></b>. Qua e là un po’ sopra le righe ma promosso.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<b>Voto:
6.5</b><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Allora,
è una cosa mia, lo ammetto, ma non riesco a non trovare pesante e sopra le
righe qualsiasi cosa a cui si approccino gli <b>Zen Circus</b>. La versione di<b><i> Hotel Supramonte </i></b>è
rispettosa e filologicamente corretta, ma non riesce a non annoiare.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<b>Voto:
6</b> per obiettività<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
I
<b>Pinguini Tattici Nucleari</b> sono una band che apprezzo molto per la loro carica
ironica. Qui cercano di rendere divertente<b><i> Fiume Sand Creek</i></b>. Ecco, <i>Fiume Sand
Creek </i><b>non è </b>un pezzo divertente.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<b>Voto:
4</b><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<b>Artù</b>
si cimenta con un altro intoccabile:<b><i> Il Cantico dei Drogati</i></b>. Il giovane
cantante si emoziona, la voce si spezza e nel crescendo canta a pieni polmoni.
Laddove De Andrè sembrava quasi sussurrare. Ecco, appunto. Una cover che
andrebbe presa a esempio di come non si fa una cover.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<b>Voto:
3</b><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<b>Vasco
Brondi</b> ha finalmente spento <b>Le Luci Della Centrale Elettrica</b>, ha imparato a
cantare e ci regala una <b><i>Smisurata Preghiera </i></b>degna del <b><i>Maestro</i></b>. Ottima chiusura,
il problema è quello che abbiamo ascoltato prima.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<b>Voto:
7</b><o:p></o:p></div>
<br />
<iframe allow="encrypted-media" allowtransparency="true" frameborder="0" height="380" src="https://open.spotify.com/embed/album/1SUSkUAYsK6m0GXvZ495yP" width="300"></iframe>Andrea La Roverehttp://www.blogger.com/profile/06660947487001818837noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7255051603608876842.post-74348295758803570932019-06-08T14:38:00.000+02:002019-06-08T14:38:19.335+02:00Skanska Mord - Blues Frome The Tombs (2019) Recensione<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj3FYR1uB15Dz_cW_O0_50PqtgA362v2NrzYiM_mTuh8DB1Ct9U4a2QLTICeoTXvWBp0E8qMeEkCydksAHm2NILl4L2tIcnuxBCp7omImF1j6pgzOXRAfrdWbeW8zaeeVqAch5mmK0uxsHb/s1600/Skanska.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1200" data-original-width="1200" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj3FYR1uB15Dz_cW_O0_50PqtgA362v2NrzYiM_mTuh8DB1Ct9U4a2QLTICeoTXvWBp0E8qMeEkCydksAHm2NILl4L2tIcnuxBCp7omImF1j6pgzOXRAfrdWbeW8zaeeVqAch5mmK0uxsHb/s320/Skanska.jpg" width="320" /></a></div>
<h2>
</h2>
<h2>
Non
sorprende più ormai che per gli appassionati di quel blues rock che ebbe il suo
periodo di maggior fortuna tra il ’68 e i primi anni ’70, le maggiori
soddisfazioni arrivino sempre dai paesi scandinavi.</h2>
<iframe allow="accelerometer; autoplay; encrypted-media; gyroscope; picture-in-picture" allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="https://www.youtube.com/embed/0VSOC4vHZxs" width="560"></iframe>
<br />
<div class="MsoNormal">
<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
Ennesima
prova ne sono gli <b>Skanska Mord</b>, band svedese di cui non è facile saper qualcosa
di più, a meno di avventurarsi in oscuri meandri del web, su pagine scritte in
cirillico o in sconosciuti idiomi nordici, con il solo traduttore Google a fare
da <b>Virgilio</b>, causando non poche pagine di sublime, involontaria comicità
surreale.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<b><i>Blues
From The Tombs</i></b> è – o almeno così pare – il loro quarto lavoro e, fin dal titolo
e dalla grafica della copertina, chiarisce subito i riferimenti. Un <b>blues
sepolcrale</b>, condito da atmosfere affini al doom, non proprio solari ed estive.
Le band faro del progetto sono le solite: i mitici <b>November </b>e i loro epigoni
nordici, <b>Graveyard, Witchcraft</b> e <b>Brutus</b>. Le radici più lontane affondano però
nell’aureo periodo ’67-’74, quando una serie di band d’oltremanica,
implementando la lezione <b><i>hard blues</i></b> dei <b>Cream</b>, creò quel sound che ancora oggi
fa impazzire i capelloni con camicie a fiori e jeans a zampa d’elefante d’ogni
latitudine. <b>Black Sabbath</b>, sicuro, ma soprattutto i primi Free, i <b>Leaf Hound</b> e
i misconosciuti – ma fantastici – <b>Black Cat Bones</b>. Prova ne sia la strepitosa
cover di questi ultimi, <b><i>Death Valley Blues</i></b>, per chi scrive il più bel pezzo
<b><i>slow blues </i></b>di sempre.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhI4gIBcJM_qVggYaLzsawF6em1kUktr-OVOCOxFZuUEdk2OvUwgKPXNIomy-Db0O2_lr3jMOZntk8vOX2Iw3S4jdQ7WBC0vrhsFKCXWRURz7rnFKguVRAk-VeJa7vWciScoBxZ0XLMbPkk/s1600/60147753_10156326456768123_6687610082437365760_n.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="645" data-original-width="960" height="215" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhI4gIBcJM_qVggYaLzsawF6em1kUktr-OVOCOxFZuUEdk2OvUwgKPXNIomy-Db0O2_lr3jMOZntk8vOX2Iw3S4jdQ7WBC0vrhsFKCXWRURz7rnFKguVRAk-VeJa7vWciScoBxZ0XLMbPkk/s320/60147753_10156326456768123_6687610082437365760_n.jpg" width="320" /></a></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
Si
parte subito forte con l’accelerata <b><i>Snow</i></b> e la novemberiana<b><i> Simon Says</i></b>, tuttavia
le vere gemme di questo lavoro vengono fuori quando la velocità rallenta a
favore di torbide atmosfere blues. <b><i>Edge Of Doom</i></b> e <b><i>Blinded By The Light </i></b>sono in
questo senso programmatiche già nel titolo e dei veri, piccoli, capolavori del
genere. Molto bella <b><i>Sun</i></b>, che parte lenta per poi accelerare un po’ alla volta,
con qualche accenno melodico e un peso strumentale meno asfissiante di altri
pezzi, fino a trasformarsi in un maestoso blues per poi riprendere le liquide e
psichedeliche atmosfere iniziali. <b><i>Death Valley Blues</i></b>, come detto, è una cover
dei Black Cat Bones che riprende l’originale quasi nota per nota, dandole una
suggestione vintage quasi più marcata della prima versione che, ricordiamolo,
ha oltre cinquant’anni, e arrichendo il tutto con un’azzeccata armonica che
peraltro fa capolino in vari pezzi.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<i>Blues
From The Tombs</i> è un lavoro destinato ai nostalgici del periodo a cavallo tra
sixties e seventies, che sono tanti e spesso giovanissimi, tutti gli altri si
astengano; questa è roba che non può e non deve uscire dalla propria nicchia.
Nella sua nicchia, tuttavia, è la cosa migliore<span style="mso-spacerun: yes;">
</span>uscita nel 2019.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<b>Voto:
7.5</b><o:p></o:p><br />
<b><br /></b></div>
<br />
<iframe allow="encrypted-media" allowtransparency="true" frameborder="0" height="380" src="https://open.spotify.com/embed/album/2EtNMydiJc5UkoHtNBThb7" width="300"></iframe>
<iframe allow="accelerometer; autoplay; encrypted-media; gyroscope; picture-in-picture" allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="https://www.youtube.com/embed/yJHGB_xqZkM" width="560"></iframe>Andrea La Roverehttp://www.blogger.com/profile/06660947487001818837noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7255051603608876842.post-33021544296224084392019-06-01T14:21:00.003+02:002019-06-01T14:21:38.841+02:00Effenberg - Il Cielo Era Un Corpo Coperto (2019) - Recensione<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgTovm7-GnrzkchuKSeKOQStr5qJytaU_bBZWWeMS3CJPcPpjwieqWuhjMUW4CwGhjYaTNiekvN7OB7HouGFnFKkp8doeQQlnMLxgnyZuEYr6ZQS7yLI_nEHbsVoVN7rlaTx3hSBN3O4lks/s1600/Effenberg+cover.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="960" data-original-width="960" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgTovm7-GnrzkchuKSeKOQStr5qJytaU_bBZWWeMS3CJPcPpjwieqWuhjMUW4CwGhjYaTNiekvN7OB7HouGFnFKkp8doeQQlnMLxgnyZuEYr6ZQS7yLI_nEHbsVoVN7rlaTx3hSBN3O4lks/s320/Effenberg+cover.jpg" width="320" /></a></div>
<h2>
</h2>
<h2>
Dopo
avervi parlato in modo lusinghiero di Fwora Jorgensen, il cantautore finto
finlandese, ecco un altro bel disco dalle atmosfere minimali del nord Europa,
quello di Effenberg.</h2>
<iframe allow="accelerometer; autoplay; encrypted-media; gyroscope; picture-in-picture" allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="https://www.youtube.com/embed/Do3iyIpfLho" width="560"></iframe>
<br />
<div>
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
Anche
in questo caso il <b><i>moniker </i></b>– che cela il toscano <b>Stefano Pomponi </b>– richiama suggestioni
nordiche, così come la bella copertina di questo <b><i>Il Cielo Era Un Corpo Coperto</i></b>.
A giudicare dall’assenza di sito – provvisoria dal 2017 – e dalla citazione
zappiana sulla pagina Facebook (<b><i>" parlare di musica e' come ballare di
architettura"</i></b>) il nostro non ama troppo parlare di sé e della sua musica,
preferendo far parlare la sua musica. Nulla di male, vista la qualità sorprendente
di questo suo secondo lavoro.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Siamo
nel campo di un <b><i>ItPop </i></b>molto raffinato e denso di nobili influenze, filtrate
attraverso la voce delicata ma ferma di<b> Effenberg</b> e un minimalismo davvero
azzeccato; nonostante Stefano lavori di sottrazione non si sente la mancanza di
nessun elemento.<o:p></o:p><br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEinGs1GUHTclHnjs3kTMRwe0q-YCoNo-WO0n3mKxFwWsCFOIor6oo15EgzckIpaMQQA37VjhJmDXRSwZRwfXHzg2C1JyqurF5pvuQdebrbW5ihOZaIrLKjbsqjCSMUVEz0pPG1nUhASZwAH/s1600/Effenberg.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="960" data-original-width="767" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEinGs1GUHTclHnjs3kTMRwe0q-YCoNo-WO0n3mKxFwWsCFOIor6oo15EgzckIpaMQQA37VjhJmDXRSwZRwfXHzg2C1JyqurF5pvuQdebrbW5ihOZaIrLKjbsqjCSMUVEz0pPG1nUhASZwAH/s320/Effenberg.jpg" width="255" /></a></div>
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
Le
influenze, dicevamo. Prendiamo <b><i>Sul Mare</i></b>, uno dei pezzi forti del disco; il
brano parte come una canzone dei <b>Baustelle,</b> la voce ricorda <b>Pacifico</b>, il
ritornello pare preso di peso da un pezzo di <b>Battiato</b>, mentre la seconda parte,
con l’arrangiamento che si anima di colpo, siamo dalle parti di <b><i>Amarsi Un Po’</i></b>
del grande<b> Lucio Battisti</b>. Eppure mai, nemmeno per un secondo, si percepisce confusione
nella <b>personalità ben definita</b> del cantautore toscano.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
E
di personalità bisogna averne per proporre canzoni ultra minimali come
<b><i>Uccellino </i></b>e <b><i>Quello Che Voglio</i></b>, animata dalla sola voce – che qui, oltre a
Battisti sembra citare <b>Luca Carboni</b> – e da un <b>soffio di synth</b>. O come<b><i> Presepe</i></b>,
che dipinge un quadretto della vita quotidiana ai tempi della società
multietnica che rigurgita fascismo social.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Ma
i pezzi migliori forse sono la malinconica <b><i>Orietta</i></b>, dall’irresistibile
andamento quasi country e cita Vasco – ma solo come roba che si canta da
bambini – proponendo uno dei più bei ritornelli degli ultimi anni e la<b><i>
titletrack</i></b>, posta in chiusura. Anche qui un brano malinconico ma con misura,
con un perfetto equilibrio tra strofa e inciso – che a me ha ricordato un po’
la bellissima e sconosciuta <b><i>Infinita è La Notte</i></b> di Pacifico e Bianconi – e un
testo interessante.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Un
lavoro davvero interessante e, soprattutto<b>, già maturo</b>. Quasi perfetto,
insomma, e che ci regala una sicurezza: non vedremo mai Effenberg dove sarebbe
giusto vederlo in un mondo ideale, ovvero in cima alle classifiche.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<b>Voto:
8</b><span style="font-size: 14pt;"><o:p></o:p></span><br />
<b><br /></b></div>
<br />
<iframe allowtransparency="true" frameborder="0" height="350" scrolling="no" src="https://www.deezer.com/plugins/player?format=classic&autoplay=false&playlist=true&width=700&height=350&color=ff0000&layout=dark&size=medium&type=album&id=90008392&app_id=1" width="700"></iframe>Andrea La Roverehttp://www.blogger.com/profile/06660947487001818837noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7255051603608876842.post-54616702661988854432019-05-22T22:55:00.002+02:002019-05-22T22:55:45.923+02:00Jenny Lewis - On The Line (2019) Recensione<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiVyQ3ccXNSj3oWVKMCB31zPcLgz26LWavgrIYJxm6RKjG1-UCwm70fIDeWdswymZMk_jaHb3AYX1kEufe4IzwnJOJ8b3Irkdt55Dk_f-HZgqQ_Tk9mbJb89wFqZdglrMceOLXk6z73t22I/s1600/Jenny+Cover.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1425" data-original-width="1425" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiVyQ3ccXNSj3oWVKMCB31zPcLgz26LWavgrIYJxm6RKjG1-UCwm70fIDeWdswymZMk_jaHb3AYX1kEufe4IzwnJOJ8b3Irkdt55Dk_f-HZgqQ_Tk9mbJb89wFqZdglrMceOLXk6z73t22I/s320/Jenny+Cover.jpg" width="320" /></a></div>
<h2>
</h2>
<h2>
Jenny Lewis da vent’anni imperversa tra musica, cinema e
televisione negli Stati Uniti, sempre a un passo dal successo di massa e
incarnando alla perfezione il fascino discreto e un po’ sghembo dell’artista
indie.</h2>
<iframe allow="accelerometer; autoplay; encrypted-media; gyroscope; picture-in-picture" allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="https://www.youtube.com/embed/jubKE-ymrV0" width="560"></iframe>
<br />
<div class="MsoNormal">
<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
Beh, con questo <b><i>On the Line</i></b> – il suo <b>quarto lavoro</b> da
solista – sarebbe pure arrivato il momento di riscuotere la cambiale col
successo, a 43 anni. Noi temiamo che non sarà così, tuttavia se c’è un disco
che meriterebbe di essere ascoltato da tutti, è proprio questo.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Sei dischi coi <b>Rilo Kiley</b>, uno col duo <b>Jenny & Johnny</b>,
infinite collaborazioni e quattro lavori da solista, Lewis può ben definirsi
una veterana; e l’esperienza si vede e si sente tutta, negli undici pezzi di <i>On
the Line</i>. Jenny canta con una sicurezza e una misura irraggiungibili, passando
con leggerezza da un pop folk à la <b>Dylan </b>al pop nobile dei <b>Beatles</b>, con
passaggi leggerissimi, forse troppo, dalle parti del power pop radiofonico
americano, stile <b>Fleetwood Mac</b>. Che erano inglesi, ok, ma che nella parte
milionaria – e meno qualitativa – della loro carriera impazzarono perlopiù in
USA.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<b><i>Heads Gonna Roll</i></b> parte col botto; bel testo, melodia
perfetta, arrangiamento azzeccatissimo con tanto di splendido solo di organo.
Per me, a questo punto dell’anno, tra i <b>cinque pezzi migliori</b> del <b>2019</b>. <b><i>Wasted
Youth </i></b>rimane quasi sugli stessi livelli, penalizzata forse da un ritornello fin
troppo leggero e solare. <b><i>Red Bull & Hennessy</i></b> veleggia appunto dalle parti
dei Fleetwood Mac, o anche di epigoni meno nobili – ricordate i <b>Corrs</b>? <o:p></o:p></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEixq3zPafQxidnpD6QLmjikKtTOHcx7-jR4AM2oe3RuznSUKBEhZNOMu5YTNnPSS_ZN2VUXgN4-GjnPXvYT4_ujviXr6bcmAqYLivur-7YrJY2HucSF0RMlED025JZcKnFQ33Re3Cdam7Ox/s1600/Jenny.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1600" data-original-width="1335" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEixq3zPafQxidnpD6QLmjikKtTOHcx7-jR4AM2oe3RuznSUKBEhZNOMu5YTNnPSS_ZN2VUXgN4-GjnPXvYT4_ujviXr6bcmAqYLivur-7YrJY2HucSF0RMlED025JZcKnFQ33Re3Cdam7Ox/s320/Jenny.jpg" width="266" /></a></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<b><i>Hollywood Lawn</i></b> è un pelino sotto <i>Heads Gonna Roll</i>, ma
dimostra comunque come Lewis sia davvero di un altro pianeta quando si butta su
ritmi lenti tra pop, country e folk, novella <b>Neil Young </b>in gonnella.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<b><i>Do Si Do</i></b> è forse il pezzo più trendy, e lo sarebbe ancor di
più se fossimo nel <b>1999</b>. Arrangiamento tra <b>Moby</b> – quando gli bastava la musica
per far parlare di sé – e l’ultima <b>Van Etten</b>. Davvero un bel passaggio
sorprendente.<span style="mso-spacerun: yes;"> </span>Il disco va avanti così,
tra episodi più solari – La bella e conclusiva <b><i>Rabbit Hole</i></b> – e passaggi ancora
intimisti –<b><i> Dogwood</i></b> e il gioiellino <b><i>Taffy </i></b>– senza cadute di stile.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Sicuramente un disco imperdibile per tutti gli appassionati
del pop di qualità.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<b>Voto: 8</b><o:p></o:p><br />
<b><br /></b></div>
<br />
<iframe allowtransparency="true" frameborder="0" height="350" scrolling="no" src="https://www.deezer.com/plugins/player?format=classic&autoplay=false&playlist=true&width=700&height=350&color=ff0000&layout=dark&size=medium&type=album&id=91178532&app_id=1" width="700"></iframe>Andrea La Roverehttp://www.blogger.com/profile/06660947487001818837noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7255051603608876842.post-78834313275974169902019-05-20T23:04:00.000+02:002019-05-20T23:04:09.476+02:00Il Commissario Pepe (1969) - Recensione<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgQh_C_Sd33v_K6kwMsTMw1zmqvI1_O6Ct7WYVL6ykapZNo0wyakDpiCVGlMW0MaRIs4HxuCyOfEVAIc4ycLlZf_P9oiZL_g21a9hU7DZM29rkv23MZXmQVTZnnl8r8y4DDkPhbsJ7dBnBw/s1600/Pepe.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="428" data-original-width="306" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgQh_C_Sd33v_K6kwMsTMw1zmqvI1_O6Ct7WYVL6ykapZNo0wyakDpiCVGlMW0MaRIs4HxuCyOfEVAIc4ycLlZf_P9oiZL_g21a9hU7DZM29rkv23MZXmQVTZnnl8r8y4DDkPhbsJ7dBnBw/s320/Pepe.jpg" width="228" /></a></div>
<h2>
</h2>
<h2>
La filmografia italiana tra gli anni ’50 e ’70 è uno
sterminato magazzino di pellicole di grande qualità, spesso sconosciute ai più.</h2>
<div class="MsoNormal">
<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<iframe allow="accelerometer; autoplay; encrypted-media; gyroscope; picture-in-picture" allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="https://www.youtube.com/embed/N5pDtMz-W2k" width="560"></iframe>
Sì, perché se tutti conosciamo i grandi capolavori della
<b>commedia all’italiana</b> o certi episodi del cinema di denuncia, alcuni film, di
grandissima qualità, sono stati consegnati all’oblio del tempo. Un esempio è <b><i>Il
Commissario Pepe</i></b>, quinta fatica di un regista destinato a ben altri allori,
<b>Ettore Scola</b>. Episodio sicuramente minore nella filmografia del maestro, <b><i>Il
Commissario Pepe</i></b> è tuttavia un lavoro godibilissimo, che sfoggia un <b>Ugo
Tognazzi </b>nel pieno della maturità, in una delle sue interpretazioni più misurate
e riuscite. Ma anche la regia, che strizza l’occhio all’estetica pop del
periodo, è ben calibrata, e le interpretazioni dei tantissimi caratteristi sono
spesso da antologia. Una menzione a parte per il personaggio dell’anarchico
mutilato di guerra Parigi, interpretato da <b>Giuseppe Maffioli</b>; una spina nel
fianco tanto fastidiosa quanto a tratti toccante.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Il soggetto, tratto dall’omonimo romanzo di <b><a href="https://it.wikipedia.org/wiki/Ugo_Facco_De_Lagarda" target="_blank">Ugo Facco DeLagarda</a></b>, vede al centro della vicenda appunto il Commissario Pepe, onesto
funzionario, progressista e di vedute aperte, bonario con i personaggi ai
margini della società e riservato nel portare avanti una storia d’amore che
preferisce mantenere segreta. L’ambientazione è quella dell’<b>opulento nord est</b> –
la pellicola è girata a<b> Vicenza</b>, che però non viene menzionata – dove il fuoco
cova sotto la cenere di una banalità borghese quasi ostentata. Ed ecco così il
commissario trovarsi per le mani un’inchiesta sui costumi sessuali dei suoi
concittadini, tanto morigerati nelle apparenze quanto pronti alle più svariate
perversioni se lontani da occhi insìdiscreti. Scola si tiene ben lontano dal
giudicare, e così il riuscitissimo personaggio di Tognazzi. I pesci che si
impigliano nelle reti dell’indagine sono talmente grossi – la sorella di un
collega, la figlia del prefetto, una suora, una nobildonna e un conte figlio di
industriali – che le alte sfere consigliano Pepe di chiudere un occhio. Almeno
sui nomi altisonanti, per far pagare le colpe ad alcuni poveri cristi rimasti invischiati
a loro volta; compresa la compagna di Pepe, fotomodella a Milano per servizi osè.
Alla fine il commissario opterà per insabbiare il tutto, più che altro per
tutelare i più deboli e chiederà il trasferimento. Un finale amaro, in sintonia
con una storia agrodolce.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Se il film è molto godibile e le interpretazioni tutte degne
di menzione, qualche macchietta di troppo appesantisce un po’ l’andamento della
pellicola. Da citare la particolare trovata che vede Tognazzi immaginare alcune
sue reazioni – quelle che per motivi di opportunità non può permettersi – in curiosi
sogni ad occhi aperti.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<i>Il Commissario Pepe</i>, moderno e malinconico personaggio che
finisce per essere stritolato forse, ma non vinto, da un sistema ipocrita e
marcio, è uno dei più riusciti di Tognazzi. Lontano dagli istrionismi un po’
sopra le righe di altri film, il grande attore tratteggia con maestria la
figura di un perdente, la prima forse di tanti altri nella filmografia di
Scola, con grande dignità e sentimento.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Una pellicola da riscoprire.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<b>Voto: 7</b><o:p></o:p></div>
<br />Andrea La Roverehttp://www.blogger.com/profile/06660947487001818837noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7255051603608876842.post-26395874651667447172019-05-14T00:04:00.003+02:002019-05-14T00:04:59.340+02:00Io la conoscevo bene (1965) - Recensione<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgNwJZUBfk7tTY9BOtaTTB27vR2bkyANGVzcDjThOfKOwlSNoblpgo9s56DJxaZE8FT7CJyb-ThBDHlx6rLeCmeTj9DyD87ER0UH9vH7n5AXGI4Wt9_db3aYct0GPEtL7asqlkW8-cI2Le4/s1600/io_la_conoscevo_bene_locandina_536bc.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="900" data-original-width="611" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgNwJZUBfk7tTY9BOtaTTB27vR2bkyANGVzcDjThOfKOwlSNoblpgo9s56DJxaZE8FT7CJyb-ThBDHlx6rLeCmeTj9DyD87ER0UH9vH7n5AXGI4Wt9_db3aYct0GPEtL7asqlkW8-cI2Le4/s320/io_la_conoscevo_bene_locandina_536bc.jpg" width="217" /></a></div>
<h2>
</h2>
<h2>
Vengono le lacrime agli occhi, e anche un po’ i nervi, a
pensare che nel 1965 in Italia si giravano film come <i>Io la conoscevo bene</i>. </h2>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
E a
pensare che all’epoca <b>Antonio Pietrangeli</b> non era nemmeno ritenuto la punta di
diamante del nostro cinema, tanto che il <b>critico Rondi</b> de <b><i>Il Tempo</i></b>, poteva
permettersi, in un clamoroso attacco di miopia cinematografica, di usare queste
parole per recensire la pellicola: “Purtroppo queste intenzioni non sono state
adeguatamente servite né dal testo, né in molti casi dalla regia.”<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Ebbene, questo film riuscito a metà nelle parole del
critico, è uno dei massimi capolavori del cinema italiano, giusto per fermarci
ai nostri confini; tanto da essere stato inserito nei <b>100 film italiani</b> da
salvare.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Pietrangeli era un regista particolare all’interno della
scuola della commedia all’italiana; suo un certo gusto per la polemica e per la
critica sociale che non sempre si riscontra in maestri più celebri e celebrati.
E anche una certa mano a livello tecnico ed estetico, come si evince da alcune
inquadrature spericolate e ancora oggi modernissime.<o:p></o:p></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhzuhxEWPhalzFodXX-fqicgQjDGRpP4wuRsaUVsVSabpYARjf2wYWWEDQ1gY7lKwojrZZRLw4YK4aUFiXdeAIKcrhdwm_8Y2wcJBX28guXAb5KRWnytrqRy1CPhoM6oQBL2yPtpbDqHEas/s1600/io-la-conoscevo-bene-1965-cov932-932x460.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="461" data-original-width="932" height="157" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhzuhxEWPhalzFodXX-fqicgQjDGRpP4wuRsaUVsVSabpYARjf2wYWWEDQ1gY7lKwojrZZRLw4YK4aUFiXdeAIKcrhdwm_8Y2wcJBX28guXAb5KRWnytrqRy1CPhoM6oQBL2yPtpbDqHEas/s320/io-la-conoscevo-bene-1965-cov932-932x460.jpg" width="320" /></a></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<i>Io la conoscevo bene </i>è la parabola di una ragazza di
campagna – ma questo si scopre avanti nel film – che cerca il proprio riscatto
nella vita e nel successo della grande metropoli, una<b> Roma </b>in pieno boom
economico, superficiale e resa senza pietà nel suo squallore post moderno.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<b>Adriana</b>, interpretata da una <b>Stefania Sandrelli
</b>meravigliosa, forse mai più così in parte, passa di esperienza in esperienza
cercando non si sa bene cosa – e pare non lo sappia nemmeno lei – venendo di
volta in volta illusa, sfruttata, rivoltata come un guanto e restituita alla
sua ribellione naif, da una serie di personaggi sempre più squallidi. Un
gestore di negozi di estetista, che le permette di vivere nel retro dell’attività
in cambio di favori sessuali a cui Adriana si presta con rassegnazione,
invocando solo un po’ più di gentilezza; una serie di ragazzi per cui prende
una “scuffia” via l’altra, che la sfruttano come passatempo in attesa di quella
giusta; un rabberciato talent-scout, interpretato da un favoloso <b>Nino Manfredi</b>,
l’attore famoso – <b>Enrico Maria Salerno</b> – e quello sul viale del tramonto – <b>Ugo Tognazzi</b>
in una delle sue macchiette più riuscite – il patetico Baggini che, per elemosinare
un briciolo di celebrità, cerca di farle da ruffiano. Perfino il garagista, un
imberbe <b>Terence Hill</b>, gentile e onesto, alla fine cede sfruttando l’apatica
disponibilità della giovane; la pseudo amica del bel mondo che la fa abortire
in casa, praticamente obbligandola. Unico personaggio positivo è il pugile
suonato – un grandissimo <b>Mario Adorf </b>– che offre uno squarcio di poesia
tenendole compagnia dopo l’ennesima delusione, senza chiedere nulla in cambio.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Sono gli anni del boom, ma anche quelli di <b>Bianciardi</b> e della
critica al capitalismo sfrenato e ai falsi bisogni, e Adriana impersona
perfettamente queste contraddizioni. Vuole diventare una star, ma non perché ne
abbia la voglia o le capacità, semplicemente perché una certa visione della
società sembra imporle quel modello di felicità. Un modello cui Adriana sembra
aderire più per inerzia e pigrizia, che per reale appartenenza. Il suo
personaggio è tratteggiato perfettamente dallo scrittore con cui intrattiene
una breve relazione: tutto le scivola addosso e sente solo il bisogno di avere
cose – e amanti – sempre nuovi, pur di sfuggire al fatale incontro con sé
stessa. Riflessioni quantomai attuali, purtroppo.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<iframe allow="accelerometer; autoplay; encrypted-media; gyroscope; picture-in-picture" allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="https://www.youtube.com/embed/3DB699jje9Q" width="560"></iframe>
Ma attenzione a liquidare Adriana come personaggio monocorde
e negativo; dietro la sua apaticità e la sua mancanza di un codice morale,
Pietrangeli adombra una <b>estrema sensibilità</b>, che sublimerà nel gesto estremo
che concluderà la sua parabola, nella presa d’atto che la ribellione al proprio
destino è sempre inutile. La società è colpevole di spingere Adriana a cercare
ideali sempre più futili, ma è anche il breve intermezzo in cui si reca nella
casa natìa, a gettare luce sulla sua vicenda. Una madre anaffettiva e bigotta,
che le rimprovera il suo tentativo di smarcarsi dal ruolo femminile a lei
destinato e che obbliga la sorella – quella sorellina a cui Adriana sembrava
aggrapparsi come all’unico bel ricordo – alla vita monacale sancendone, chissà,
la malattia che la porterà via. Una famiglia da cui fuggire, insomma, ma che
continua a pesare coi suoi moralismi e sensi di colpa anche nella moderna vita
nella metropoli.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Un ruolo fondamentale lo recita la <b>colonna sonora,</b> lo <b><i>score</i></b>
originale di<b> Piero Piccioni </b>e le tante canzoni che la protagonista ascolta al
giradischi e che spesso hanno il potere di cambiare, più che di accompagnare, i
suoi stati d’animo.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Cosa resta allo spettatore moderno di Io la conoscevo bene?
L’amarezza per un personaggio tanto moderno che non è difficile da traslare
nell’oggi su un qualsiasi personaggio da reality, in cerca della fama per la
fama e non per un reale fuoco sacro per l’arte. La tristezza per la prematura
fine di Pietrangeli, morto annegato appena tre anni dopo, ma anche di quello
straordinario cinema. La straordinaria sequenza in cui, per l’unica volta,
Adriana incontra sé stessa, all’improvviso, e piange rigando il volto col
mascara sciolto e quella finale, con la soggettiva che anticipa di qualche anno
<b>Dario Argento</b>. E, per chi vuole, la ricerca delle citazioni nel canzoniere dei
Baustelle, che più volte hanno preso spunto dall’iconica pellicola, a partire
da <b><i>Perché una ragazza d’oggi può uccidersi</i></b>, coi versi <b>“Noi la conoscevamo bene”</b>.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<b>Voto: 9</b><o:p></o:p></div>
<br />
<iframe allow="accelerometer; autoplay; encrypted-media; gyroscope; picture-in-picture" allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="https://www.youtube.com/embed/b-TqiYlZvOQ" width="560"></iframe>Andrea La Roverehttp://www.blogger.com/profile/06660947487001818837noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7255051603608876842.post-11372389738726192182019-05-09T14:38:00.000+02:002019-05-09T14:38:44.643+02:00Shotgun Sawyer - Bury The Hatchet (2019) Recensione<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhabYmF4_wqW_r80QpqfWVqI7aeoP56aiPSHD44QndJqwtj_hY1QAYraPhqNcn6SAOSgeNSSkh9LdRLPm3ZxnrVzIcAOgnV-uDAzE6MOBMcqhI8Hn3CseyxxOfweFGBgZ3-hvJg7R_9uxDl/s1600/Shotgun.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="960" data-original-width="960" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhabYmF4_wqW_r80QpqfWVqI7aeoP56aiPSHD44QndJqwtj_hY1QAYraPhqNcn6SAOSgeNSSkh9LdRLPm3ZxnrVzIcAOgnV-uDAzE6MOBMcqhI8Hn3CseyxxOfweFGBgZ3-hvJg7R_9uxDl/s320/Shotgun.jpg" width="320" /></a></div>
<h2>
</h2>
<h2>
Vi
avevamo parlato brevemente degli Shotgun Sawyer tre anni fa, <i>Bury The Hatchet
</i>segna il loro ritorno col classico “delicato” secondo album.</h2>
<iframe allow="accelerometer; autoplay; encrypted-media; gyroscope; picture-in-picture" allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="https://www.youtube.com/embed/86WsFez2wGc" width="560"></iframe>
<br />
<div class="MsoNormal">
<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
Innanzitutto
dall’apertura di <b><i>Ain’t Tryin To Goin’ Down Slow </i></b>si capisce subito che le
atmosfere sono le stesse che ci avevano fatto appassionare all’esordio del
2016. Ritmi indiavolati, chitarrismo blues rock accelerato all’americana e una
certa attitudine <b><i>Redneck</i></b> à la <b>ZZTop</b>, nonostante i tre ragazzotti tutti camicie
a quadri e riff hard siano nati, cresciuti e pasciuti al sole della <b>California</b>.<o:p></o:p><br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgaWiGSvzeYCP3fUW4kzA90_tv8RfjQnM4bRTsuS_Z-U6TQleZ0h_TEQyJPQ5Gb0CkBsGV9d5jfSFc1BAx56wqZigo-Pw3KLrHULk7qmCw2hLdlcW6wD2KH6IXx-hWPHOOVaMgQ58QJB5bc/s1600/Shotgun2.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="960" data-original-width="960" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgaWiGSvzeYCP3fUW4kzA90_tv8RfjQnM4bRTsuS_Z-U6TQleZ0h_TEQyJPQ5Gb0CkBsGV9d5jfSFc1BAx56wqZigo-Pw3KLrHULk7qmCw2hLdlcW6wD2KH6IXx-hWPHOOVaMgQ58QJB5bc/s320/Shotgun2.jpg" width="320" /></a></div>
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
Il
lavoro è molto compatto, senza cadute di tensione e la chitarra di <b>Dylan Jarman
</b>suona davvero bene; niente virtuosismi gratuiti, satura e grezza il giusto, si
muove tra <b>Billy Gibbons</b> e i <b>Black Keys </b>– ma gli Shotgun sono assai più centrati
nel loro genere, per chi scrive.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<b><i>Backwoods
Bear</i></b> ci trascina nel <b><i>bayou </i></b>con una <b><i>slide country blues </i></b>come, cinquant’anni fa,
facevano i <b>Creedence Clearwater Revival</b>, anch’essi californiani finti sudisti
alla bisogna. <b><i>You Got Run</i></b> parte di nuovo all’insegna di un hard blues
velocissimo, poi rallenta, si trasforma in un blues urlato e stregonesco, per
poi riprendere il piglio hard in coda, davvero un ottimo pezzo. <b><i>Son Of The
Morning </i></b>è il lentone, immancabile, della situazione, buono ma non del tutto
riuscito, manca un po’ di atmosfera che forse arriverà con qualche anno in più
sul groppone. <b><i>Hombre</i></b> è un altro indiavolato boogie che omaggia gli ZZTop già
nel titolo e sfoggia un andamento tra <b>R.L. Burnside</b> e <b>John Lee Hooker</b>.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<b><i>Love
You Right </i></b>è un pezzo più<b> anni ’70</b> di qualsiasi cosa sia stata suonata negli
anni ’70, mentre <b><i>When The Sun Breaks </i></b>è un altro lento, questa volta più
azzeccato, che si muove pienamente in ambito blues e dà la giusta soddisfazione
all’appassionato. C’è ancora il tempo per chiudere con la slide di <b><i>Shallow Grave</i></b>.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
In
definitiva, <b><i>Bury The Hatchet</i></b> è il tipico disco da prendere o lasciare; se il
fatto che una band sia al 100% derivativa e non suoni una nota – pur benissimo –
nuova, vi dà fastidio, lasciate pure perdere. Se amate invece il rock blues e
volete godervi nove pezzi suonati da gente che ci sa fare, è l’album che fa per
voi.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<b>Voto:
7<span style="font-size: 14pt;"><o:p></o:p></span></b><br />
<b><br /></b></div>
<br />
<iframe allowtransparency="true" frameborder="0" height="350" scrolling="no" src="https://www.deezer.com/plugins/player?format=classic&autoplay=false&playlist=true&width=700&height=350&color=ff0000&layout=dark&size=medium&type=album&id=87386492&app_id=1" width="700"></iframe>Andrea La Roverehttp://www.blogger.com/profile/06660947487001818837noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7255051603608876842.post-22891393413505205802019-05-05T14:28:00.000+02:002019-05-05T14:28:08.633+02:00Damien Jurado - In The Shape Of A Storm (2019) Recensione<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj3sw8DIaCLrRTl6CuJfY3Xi7-TSFjY_LomG_9v-eK_9Gt7-ivlFxYYWUTY3sq8qzWqmDNNYqJNDxZXB7i6BrWaDPeow55Kti0CfPOOwFQ7pEHmyV2pppyrIWZHc9MtscEvVKLwgLt5Grb_/s1600/Jurado.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1200" data-original-width="1200" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj3sw8DIaCLrRTl6CuJfY3Xi7-TSFjY_LomG_9v-eK_9Gt7-ivlFxYYWUTY3sq8qzWqmDNNYqJNDxZXB7i6BrWaDPeow55Kti0CfPOOwFQ7pEHmyV2pppyrIWZHc9MtscEvVKLwgLt5Grb_/s320/Jurado.jpg" width="320" /></a></div>
<h2>
<br /></h2>
<h2>
Damien
Jurado è uno dei cantautori riusciti a emergere negli ultimi anni dal marasma
creato dalla rinascita di quel genere tra il folk, l’indie e l’<i>americana</i>
avvenuto dopo la fine degli anni ’90.</h2>
<div style="text-align: center;">
<iframe allow="accelerometer; autoplay; encrypted-media; gyroscope; picture-in-picture" allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="https://www.youtube.com/embed/Xgf-M4AS2Q0" width="560"></iframe>
</div>
<div class="MsoNormal">
<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<b><i><br /></i></b></div>
<div class="MsoNormal">
<b><i>In
the shape of a storm</i></b> nasce dopo la dolorosa perdita del collega musicista –
spesso collaboratore nei suoi progetti – <b>Richard Swift</b>, scomparso a soli 41
anni per problemi di salute dovuti all’alcolismo, e alla mancanza di
assicurazione sanitaria. È l’America, baby.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Appunto
da un momento di intenso raccoglimento nasce questo lavoro che mette insieme
canzoni scritte negli ultimi vent’anni e registrate in presa diretta e con
arrangiamenti completamente acustici in circa due ore. Unica presenza la
seconda chitarra di <b>Josh Gordon</b>.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Ci
troviamo di fronte a un lavoro che, a dispetto dell’impostazione disorganica e
scarsamente progettuale, risulta piacevolmente compatto. Certo, se cercate un
lavoro rumoroso e arrangiato per svagarvi, cercate altrove. <i>In the shape of a
storm</i> è l’ideale per prendersi una pausa dai ritmi forsennati imposti al
cervello dall’era dei social sempre connessi, una parentesi bucolica che fa
fare pace ai nostri sensi col mondo che li circonda.<o:p></o:p><br />
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhSgxRHlNzfdK6n4EkzMnDSpr5FXrH5uDD_WSH20ZH4F6jg2pCkBEz8DFJRYjeaaGkmcAsBsZ4fM9Oz_kN7vBxxSrgg2XS_q60_ijdxKEgLHYfHaaLanFjPD7lkQokR6OZWRmW3TNLAe0cj/s1600/Jurado1.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="423" data-original-width="846" height="160" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhSgxRHlNzfdK6n4EkzMnDSpr5FXrH5uDD_WSH20ZH4F6jg2pCkBEz8DFJRYjeaaGkmcAsBsZ4fM9Oz_kN7vBxxSrgg2XS_q60_ijdxKEgLHYfHaaLanFjPD7lkQokR6OZWRmW3TNLAe0cj/s320/Jurado1.jpg" width="320" /></a></div>
<br />
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
Non
ha troppo senso analizzare i pezzi uno per uno in un lavoro che va lasciato
fluire quasi come se fosse un’unica lunga traccia, tuttavia mi limito a
segnalare gli episodi più convincenti. L’iniziale <b><i>Lincoln</i></b>, canzone
perfettamente costruita attorno alla voce sussurrante e delicata di Damien; la
bellissima – e brevissima – <b><i>Oh Weather</i></b>, tra <b>Nick Drake</b> e <b>Simon & Garfunkel</b>;
la cupa<b><i> South </i></b>e il raggio di sole della stupenda <b><i>Throw me now your arms</i></b>.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Ma,
ripeto, tutto il lavoro è davvero su livelli d’eccellenza.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<b>Voto: 7</b><span style="font-size: 14pt;"><o:p></o:p></span></div>
<br />
<iframe allowtransparency="true" frameborder="0" height="350" scrolling="no" src="https://www.deezer.com/plugins/player?format=classic&autoplay=false&playlist=true&width=700&height=350&color=ff0000&layout=dark&size=medium&type=album&id=85692862&app_id=1" width="700"></iframe>Andrea La Roverehttp://www.blogger.com/profile/06660947487001818837noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7255051603608876842.post-57630151735330287402019-04-30T14:35:00.002+02:002019-04-30T14:35:52.712+02:00Malihini - Hopefully, Again (2019) Recensione<br />
<div class="MsoNormal">
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh9wWW9mvMyD6kTXkThyRvW5mcir0ESH6wqwk0sB1VP_6R2SSXPpRv1qw0DztIT_s9WE_2HrGyzJcqSmCnIgTDCMepUrCojSQxBYM9kEFMy4gYtDlaRz8uw5AZFis8SNfqKdW1gKxLsEjHU/s1600/Malihini.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="960" data-original-width="959" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh9wWW9mvMyD6kTXkThyRvW5mcir0ESH6wqwk0sB1VP_6R2SSXPpRv1qw0DztIT_s9WE_2HrGyzJcqSmCnIgTDCMepUrCojSQxBYM9kEFMy4gYtDlaRz8uw5AZFis8SNfqKdW1gKxLsEjHU/s320/Malihini.jpg" width="319" /></a></div>
<h2>
</h2>
<h2>
Ricordate
Stanis La Rochelle, il personaggio di Boris che, ossessivamente, si indignava
davanti a prodotti artistici perché troppo italiani? Il debutto dei nostrani
Malihini farebbe al caso suo.</h2>
<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<iframe allow="accelerometer; autoplay; encrypted-media; gyroscope; picture-in-picture" allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="https://www.youtube.com/embed/tBkBuolDGeM" width="560"></iframe>
Il
duo infatti è <b>italiano</b> ma a sentire la loro musica probabilmente sarebbe
difficile immaginarlo; circondati da un discreto <b><i>hype</i></b> hanno da poco dato alle
stampe <b><i>Hopefully, again</i></b>, dieci pezzi che si muovono discretamente sulla linea
di confine di tanti generi, dal <b>pop vagamente sintetico à la Phoenix</b> al <b><i>dream
pop</i></b> di <b>Beach House</b> e <b>Cigarettes After Sex</b>, passando per un cantautorato delicato
e quasi folk negli intenti, ma spruzzato di una elettronica mai troppo
invasiva.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
La
storia del duo è stata raccontata fin troppe volte e sembra studiata per
aumentare la curiosità, perciò se volete leggerla la troverete in rete nei
minimi particolari; a noi interessa il lato musicale, perciò riassumeremo il
canovaccio:<i> lei disperata/lui ultra indie/autostop/passaggio/amore/travaglio
interiore/band.</i><o:p></o:p><br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgw63z-dZH9ffZLpFOj9d3Y0LoDDov9h9N1DdCgLtC-2ONfQhmbi1lSPl3V_Np4LJ1KIwakOKxsqZoCqNqGYh7ASQMk4c4n2PK1rEyKulJ309p75rikvDint5FcsfIQDtikqIpZYg69kgOJ/s1600/Malihini3.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="960" data-original-width="768" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgw63z-dZH9ffZLpFOj9d3Y0LoDDov9h9N1DdCgLtC-2ONfQhmbi1lSPl3V_Np4LJ1KIwakOKxsqZoCqNqGYh7ASQMk4c4n2PK1rEyKulJ309p75rikvDint5FcsfIQDtikqIpZYg69kgOJ/s320/Malihini3.jpg" width="256" /></a></div>
<i><br /></i></div>
<div class="MsoNormal">
<b>Federica
Johanna Victoria Caiozzo</b>, la parte femminile del duo, è una ragazza di 37 anni
con già una discreta carriera di musicista e attrice avviata, parca di presenze
ma densa di riconoscimenti, col nome d’arte di <b>Thony</b>. Lui è <b>Giampaolo Speziale</b>,
a sua volta già attivo come musicista. L’immagine è quella giusta, un po’ <b>She
& Him</b>, un po’ produzione indie <i>low cost</i> e un po’ Baustelle nell’alternare
voce maschile e femminile.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Il
disco è sorprendente nella sua misura, una delicatezza che può venire solo
dalla piena maturità dei due componenti dei Malihini, parola che in <b>hawaiano</b>
vuol dire <b><i>pellegrino</i></b>. <o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Pezzi
più movimentati, dall’<i>opener</i><span style="mso-spacerun: yes;"><i> </i> </span>A <b><i>House On
a Boat </i></b>a <b><i>Delusional Boy </i></b>– singolo e pezzo peggiore, come sempre – <b><i>a The
Afterdays</i></b>, si alternano a brani più riflessivi. Ed è tra questi che troviamo le
gemme del lavoro; la<i> title track</i> è riuscitissima, ma è <b><i>Giving Up On Me</i></b> il vero
gioiello dell’album, un pezzo che richiama i migliori Beach House e CAS. Ottima
in questo senso anche la chiusura con <b><i>Song #1</i></b>, pare la prima canzone scritta
assieme. <b><i>If U Call</i></b>, molto buona, ricorda un po’ l’ultimo lavoro di <b>Sharon Van
Etten</b>.<o:p></o:p><br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiX7huDkw8FvPA-_9JlQubhzyD7UjxeJd7XZqA_fyxKJrutngoyoheaWeO7qJEaAUoPIOBipHbQGapSznXvtKGnXoe7aUr7w0jauGPee-3bc4nKOOpMk0xq7I5T0pXxrB6xwd5wvX0394le/s1600/Malihini2.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="960" data-original-width="960" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiX7huDkw8FvPA-_9JlQubhzyD7UjxeJd7XZqA_fyxKJrutngoyoheaWeO7qJEaAUoPIOBipHbQGapSznXvtKGnXoe7aUr7w0jauGPee-3bc4nKOOpMk0xq7I5T0pXxrB6xwd5wvX0394le/s320/Malihini2.jpg" width="320" /></a></div>
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
In
definitiva un ottimo debutto che manca ancora un po’ nel darsi una <b>linea
precisa</b>, un’identità; tuttavia se i Malihini riusciranno a proseguire su questa
linea, calibrando qualcosa qua e là, è probabile che ne vedremo – o sentiremo -
delle belle.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<b>Voto:
7</b><span style="font-size: 14pt;"><o:p></o:p></span></div>
<br />
<iframe allowtransparency="true" frameborder="0" height="350" scrolling="no" src="https://www.deezer.com/plugins/player?format=classic&autoplay=false&playlist=true&width=700&height=350&color=ff0000&layout=dark&size=medium&type=album&id=88989142&app_id=1" width="700"></iframe>Andrea La Roverehttp://www.blogger.com/profile/06660947487001818837noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7255051603608876842.post-69444067461170135612019-04-26T17:14:00.002+02:002019-04-26T17:14:59.246+02:00Sharon Van Etten - Remind Me Tomorrow (2019) Recensione<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiixBdK1Cdim-sn8VxidnAU8x-BAgAFWQuCWxqcWQM4uJUZ0nu0VBaZuBVROX8LXdG4iuzhIKErpiJumniDQOXlcOZ13X04ADSA3vvXMfSZ9OjoojAH9nFWIpEFombp0B7FmvyUQ8kMBLF_/s1600/Sharon.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="620" data-original-width="620" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiixBdK1Cdim-sn8VxidnAU8x-BAgAFWQuCWxqcWQM4uJUZ0nu0VBaZuBVROX8LXdG4iuzhIKErpiJumniDQOXlcOZ13X04ADSA3vvXMfSZ9OjoojAH9nFWIpEFombp0B7FmvyUQ8kMBLF_/s320/Sharon.jpg" width="320" /></a></div>
<h2>
<br /></h2>
<h2>
Remind
Me Tomorrow è il quarto lavoro sulla lunga distanza di Sharon Van Etten, ex
giovane promessa dell’indie folk americano, venuta fuori dall’ondata post Cat
Power e oggi trentottenne finalmente felice.</h2>
<div class="MsoNormal">
<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<iframe allow="accelerometer; autoplay; encrypted-media; gyroscope; picture-in-picture" allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="https://www.youtube.com/embed/j7sTHoeH0eA" width="560"></iframe>
Il
nuovo disco sembra mirare a sdoganare un po’ il personaggio dalle nebbie
dell’indie folk per ambire a farne un’artista internazionale – ma in parte già
lo è – virando verso sonorità leggermente più strutturate, dalle parti degli<b>
Arcade Fire</b>, con tanto di robusto contributo di <b>sintetizzatori</b>.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
L’operazione
riesce in parte, forte soprattutto di un pugno di canzoni giustamente sospese
tra malinconia – <b><i>No One’s Easy To Love</i></b> e <b><i>Malibu </i></b>– e più energica nostalgia –
<b><i>Seventeen</i></b>, accompagnata da un bel video e da molti associata a Bruce
Springsteen.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<b><i>You
Shadow</i></b>, con un arrangiamento quasi trip-hop, straniante il giusto, propone
un’accattivante melodia al limite della cantilena, davvero un bel pezzo. <b><i>Hands</i></b>
sembra un proseguimento di <b><i>No One’s Easy To Love</i></b>.<o:p></o:p><br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjZPZO_2QKKk-FovgL7vKsqeZ-tUa9jxNdYih5DxOxJwDufB8HFereYtNdKB_RVZgIhYDF_mlG89fHnWN0ARqbq9NhZviBiuV2UQ9Rj43ZifJ_93eLDcWYicuL96jHXceZzj3RxVjMMR4Fh/s1600/Sharon3.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1024" data-original-width="1548" height="211" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjZPZO_2QKKk-FovgL7vKsqeZ-tUa9jxNdYih5DxOxJwDufB8HFereYtNdKB_RVZgIhYDF_mlG89fHnWN0ARqbq9NhZviBiuV2UQ9Rj43ZifJ_93eLDcWYicuL96jHXceZzj3RxVjMMR4Fh/s320/Sharon3.jpg" width="320" /></a></div>
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
Qua
e là qualche momento di noia affiora, appesantendo il disco che risulta
tutt’altro che un capolavoro ma comunque un incoraggiante ponte verso una
possibile nuova pelle di Sharon Van Etten, aspettando sviluppi futuri.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<b>Voto:
6.5</b><span style="font-size: 14pt;"><o:p></o:p></span><br />
<b><br /></b>
<b><br /></b></div>
<br />
<iframe allowtransparency="true" frameborder="0" height="350" scrolling="no" src="https://www.deezer.com/plugins/player?format=classic&autoplay=false&playlist=true&width=700&height=350&color=ff0000&layout=dark&size=medium&type=album&id=81605582&app_id=1" width="700"></iframe>Andrea La Roverehttp://www.blogger.com/profile/06660947487001818837noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7255051603608876842.post-34964396532319960692019-04-24T16:23:00.001+02:002019-04-24T16:23:39.959+02:00Karen O - Lux Prima (2019) Recensione<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjiP-5kgLF3-njPZCmVOekaSBATIO4_7z7QggcFCMkaXTLgSw_1uUMf0jusdLjuQE_NMho3MOtp7kiMGdzj74FkwtvnEIud0huvSW48Qn5LE07GbSFr9bWKKkOLBrTXo2qWSnaaI-Q8F2FR/s1600/karen+o1.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="960" data-original-width="960" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjiP-5kgLF3-njPZCmVOekaSBATIO4_7z7QggcFCMkaXTLgSw_1uUMf0jusdLjuQE_NMho3MOtp7kiMGdzj74FkwtvnEIud0huvSW48Qn5LE07GbSFr9bWKKkOLBrTXo2qWSnaaI-Q8F2FR/s320/karen+o1.jpg" width="320" /></a></div>
<h2>
</h2>
<h2>
Gli
Yeah Yeah Yeahs, alfieri di un certo alt rock molto in voga qualche anno fa,
non mi hanno mai convinto appieno; Karen O, invece, mi ha sempre affascinato
sia per la voce che per l’uso che ne fa, un’attitudine da rockstar che va a
unirsi al fascino un po’ sghembo di certe produzioni lo-fi e inaspettate
collaborazioni.</h2>
<div>
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<iframe allow="accelerometer; autoplay; encrypted-media; gyroscope; picture-in-picture" allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="https://www.youtube.com/embed/Df6J9251KNs" width="560"></iframe>
Dopo
l’esordio solista piacevolmente di basso profilo di <b><i>Crush Songs</i></b>, torna con<b><i> Lux
Prima</i></b>, frutto della collaborazione con uno dei <i>Re Mida</i> della produzione USA,
<b>Danger Mouse</b>.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Se
il mondo fosse un posto più bello, questo potrebbe essere il disco della
definitiva esplosione per <b>Karen O</b>; temo invece che rimarrà precluso alle
orecchie cerumate del grande pubblico e al tempo stesso condannato dai
superficiali ascolti degli avanguardisti indie, sempre scontenti quasi
mangiassero pasta scotta a ogni pasto.<o:p></o:p><br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhMX-Wd4GV8qfv8AV-Kb-edvidKGo1ol28ML3K1wuOEIcQjhQy9la3vSNuCYhX0fXusBJASdfUJFvXAh0NfLKZVx4nhwUvr8l_5N8Jk2WRQk59G9clQS9F_xocfktkfcPEhBbcFS23RJxzv/s1600/karen+o2.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="649" data-original-width="912" height="227" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhMX-Wd4GV8qfv8AV-Kb-edvidKGo1ol28ML3K1wuOEIcQjhQy9la3vSNuCYhX0fXusBJASdfUJFvXAh0NfLKZVx4nhwUvr8l_5N8Jk2WRQk59G9clQS9F_xocfktkfcPEhBbcFS23RJxzv/s320/karen+o2.jpg" width="320" /></a></div>
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
Se
leggerete altre recensioni - ma perché farlo se state leggendo la mia? –
incapperete nell’abusato aggettivo “cinematografico”, beh, vi garantisco che è
la parola giusta. L’apertura con la title-track offre un’introduzione di tre
minuti che sembra presa da una colonna sonora del Morricone da giallo anni ’70
–<b><i> Quattro mosche di velluto grigio</i></b>, per dire – per poi sfociare in un pezzo di
grande atmosfera, dove fanno capolino suggestioni <b><i>Air </i></b>che torneranno spesso
nell’album. <b><i>Ministry </i></b>offre un arpeggio spaghetti western impiantato su una
batteria quasi hip hop e una melodia cristallina dove Karen O tira fuori il
lato più carezzevole della sua voce. <b><i>Woman</i></b> e <b><i>Redimeer</i></b> sono pezzi più
genuinamente rock in cui la cantante di origine sudcoreana gigioneggia con
grande padronanza, mentre in <b><i>Drown </i></b>tornano suggestioni quasi <b><i>trip hop</i></b>
pesantemente debitrici agli <i>Air</i>.<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhJcqwSpk2J4OLBsmANilHqszXWOUdOOFacmLZ1HPh10rb7AqODQZeDKDoBJZ1VTW8e8i__R1n3fsTJcbAO6AYlQxDpwzQLr0SDcvVQ8j3txC5JRjT1pHG4EzCSrtxSiEb0Uc3EJkr3h7a_/s1600/karen+o.png" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="448" data-original-width="357" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhJcqwSpk2J4OLBsmANilHqszXWOUdOOFacmLZ1HPh10rb7AqODQZeDKDoBJZ1VTW8e8i__R1n3fsTJcbAO6AYlQxDpwzQLr0SDcvVQ8j3txC5JRjT1pHG4EzCSrtxSiEb0Uc3EJkr3h7a_/s320/karen+o.png" width="255" /></a></div>
<b><i><br /></i></b>
<b><i>Reveries</i></b> è l’apice emozionale del disco: una
chitarra strimpellata malamente con una registrazione che più fatta in casa non
si potrebbe, fanno da sfondo a una prestazione vocale assolutamente da brivido
di Karen, che azzecca una melodia alla <b>Lee Hazlewood </b>che farebbe innamorare
Tarantino. <i>Chapeau.</i><o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<b><i>Nox
Lumina </i></b>chiude da par suo un disco che mischia Tarantino e gli Air, Morricone e
Gainsbourg, a questo punto dell’anno una delle cose migliori uscite.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<b>Voto:
8</b><o:p></o:p><br />
<b><br /></b>
<b><br /></b></div>
<br />
<iframe allowtransparency="true" frameborder="0" height="350" scrolling="no" src="https://www.deezer.com/plugins/player?format=classic&autoplay=false&playlist=true&width=700&height=350&color=ff0000&layout=dark&size=medium&type=album&id=90114592&app_id=1" width="700"></iframe>Andrea La Roverehttp://www.blogger.com/profile/06660947487001818837noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7255051603608876842.post-25616392471378455432019-04-21T11:33:00.001+02:002019-04-21T11:33:42.071+02:00La Playlist di Aprile<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh1HVfI9ncWBoSjzGY1o656JeG3q9D98tSmy5V7z7kEPQHrRWYp_sZZ0sUKAb7CaSnaf2OL2D1H211sXvcbZPxH6NIIDUeLv4PoiMkTqI6muBm9Q9pRSp_g6_8ENNBk4D0dFPkvlCrwaWEi/s1600/Playlist+Aprile.png" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="789" data-original-width="940" height="268" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh1HVfI9ncWBoSjzGY1o656JeG3q9D98tSmy5V7z7kEPQHrRWYp_sZZ0sUKAb7CaSnaf2OL2D1H211sXvcbZPxH6NIIDUeLv4PoiMkTqI6muBm9Q9pRSp_g6_8ENNBk4D0dFPkvlCrwaWEi/s320/Playlist+Aprile.png" width="320" /></a></div>
<br />
<iframe allowtransparency="true" frameborder="0" height="350" scrolling="no" src="https://www.deezer.com/plugins/player?format=classic&autoplay=false&playlist=true&width=700&height=350&color=ff0000&layout=dark&size=medium&type=playlist&id=5802895362&app_id=1" width="700"></iframe>Andrea La Roverehttp://www.blogger.com/profile/06660947487001818837noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7255051603608876842.post-48969974851475487132019-04-18T16:57:00.000+02:002019-04-18T16:57:14.153+02:00Julia Jacklin - Crushing (2019) Recensione<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiOd5FOrJr8q3JtOxJgLqK_BpbpmV_vFyNqwy3hSkJ88STTejU5NzZ_p4Oedq0Z7jKcMFtH_B1gEV4f6fxtIEWffyrjUxXSNJ1te-Km6ruWrIGCs9J8UrfVRWGpw-5rcXyGbTKzzW-74Afj/s1600/Julia.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="960" data-original-width="960" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiOd5FOrJr8q3JtOxJgLqK_BpbpmV_vFyNqwy3hSkJ88STTejU5NzZ_p4Oedq0Z7jKcMFtH_B1gEV4f6fxtIEWffyrjUxXSNJ1te-Km6ruWrIGCs9J8UrfVRWGpw-5rcXyGbTKzzW-74Afj/s320/Julia.jpg" width="320" /></a></div>
<h2>
<br /></h2>
<h2>
Il
cantautorato femminile un po’ indie, ora impegnato ora più frivolo, è forse
l’unica vera novità del panorama indie rock degli anni duemila, da Cat Power in
poi, passando per Marissa Nadler, Sharon Van Etten e Angel Olsen solo per
citarne qualcuna.</h2>
<div>
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<iframe allow="accelerometer; autoplay; encrypted-media; gyroscope; picture-in-picture" allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="https://www.youtube.com/embed/ktvJ2PiBgtQ" width="560"></iframe>
Atmosfere minimali e a volte<b><i> lo-fi</i></b>, tra il folk registrato
nella cameretta e i film di <b>Wes Anderson</b>.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
A
incarnare perfettamente tutte queste caratteristiche<b> Julia Jacklin</b>, bionda
ragazza sorprendentemente australiana – però sembra uscita da <b><i>Picnic a Hanging
Rock</i></b> – da poco fuori col sempre delicato <b><i>sophomore</i></b>, intitolato<b><i> Crushing</i></b>.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Il
disco è l’ideale colonna sonora per cuori spezzati ma pur sempre indie, con
alcuni video che sembrano omaggiare il mondo del già citato Wes Anderson e, a
parte qualche esplosione di vitalità come in <b><i>Head Alone </i></b>e <b><i>Pressure Party</i></b>,
presenta pezzi molto lenti e di grande atmosfera. Difficile non empatizzare con
Julia e la sua voce angelica, talmente in primo piano da far sentire qualsiasi
sfumatura fino ai respiri della giovane del<b> Nuovo Galles del Sud</b>.<o:p></o:p><br />
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjgEVhfONL3TOFe1tLI_PIx1dllT4p_Irnzc2OLh4iVxm64ILU23KsDy_zAPCPlOT3C4ITfXe_7ZZA_50K3Lhnw52VpLX3vB3LLjnREnDnlIUNNx3nTPFa2dp1_ka2tc_B6DiLfghNuPU22/s1600/Julia1.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="960" data-original-width="960" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjgEVhfONL3TOFe1tLI_PIx1dllT4p_Irnzc2OLh4iVxm64ILU23KsDy_zAPCPlOT3C4ITfXe_7ZZA_50K3Lhnw52VpLX3vB3LLjnREnDnlIUNNx3nTPFa2dp1_ka2tc_B6DiLfghNuPU22/s320/Julia1.jpg" width="320" /></a></div>
<br />
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
La
bravura di Jacklin sta nel cantare con un tono talmente dimesso da risultare
affascinante, molto minimale, per poi aprirsi nei pezzi più mossi a improvvise
esplosioni di vitalità che dimostrano comunque le buone doti vocali, e nel
saper sempre trovare comunque melodie<b><i> catchy</i></b> anche nei pezzi più lenti e
impegnativi.<o:p></o:p><br />
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhb3rmumN7Uwlkr7zVk0fvKNd4Uv246hiTlk9QSz5dzCpn8ZrVH05oE2jLzeclVhtKEPtt8cQ0ryT8UW1bX-Oj7j4XrP0ILHHWd__BiAIMuvh0APOTuxR-ewrY8VvMYB3wCc7ESoyfbc_0b/s1600/julia2.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="638" data-original-width="960" height="212" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhb3rmumN7Uwlkr7zVk0fvKNd4Uv246hiTlk9QSz5dzCpn8ZrVH05oE2jLzeclVhtKEPtt8cQ0ryT8UW1bX-Oj7j4XrP0ILHHWd__BiAIMuvh0APOTuxR-ewrY8VvMYB3wCc7ESoyfbc_0b/s320/julia2.jpg" width="320" /></a></div>
<br />
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
Il
pezzo forte del lavoro – per chi scrive – è posto subito in apertura,<b><i> Body.</i></b> Si
tratta di una ballata lentissima e dall’arrangiamento scheletrico, che cresce
pian piano attorno alla voce indolente di Julia fino a suggerire un’esplosione
che però non avverrà mai. <b><i>Head Alone,</i></b> dal testo che potrebbe essere adottato
dal<b> Me Too</b>, è un classico pezzo indie più variegato che invece, a sorpresa, si
apre in un ritornello solare dalla bellissima melodia. Splendida, a livello di
<b><i>Body, Don’t How To Keep Loving </i>You,</b> altro lentone <i>alt-country </i>che fa pensare un
po’ a certe ballate di <b>Neil Young </b>in apertura. When <b><i>The Family Flies</i></b> In è un
altro bel numero ricco di pathos e dall’improvvisa apertura melodica. Da
segnalare anche la delicata filastrocca di<b><i> Comfort</i></b>, che chiude degnamente un
album imperdibile per chi ama il cantautorato femminile.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<b>Voto:
7.5</b><span style="font-size: 14pt;"><o:p></o:p></span></div>
<br />
<iframe allowtransparency="true" frameborder="0" height="350" scrolling="no" src="https://www.deezer.com/plugins/player?format=classic&autoplay=false&playlist=true&width=700&height=350&color=ff0000&layout=dark&size=medium&type=album&id=77248622&app_id=1" width="700"></iframe>Andrea La Roverehttp://www.blogger.com/profile/06660947487001818837noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7255051603608876842.post-13215009305487070802019-04-16T14:55:00.002+02:002019-04-16T14:55:56.502+02:00Twin Temple - S/T (2019) Recensione<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgvXnWbN2obwwsD98Z9Dei9MTsDvq4fLmo1roAcWu7zSmfSj-fbWRdaWPZ082u4yKcHIDPvfLmUFp-BAnkWetf-rIw9SR3mxCmu1BaYXbhEK-usKClH1Y_Zmg_ieAhW-WSKvc3js1puy533/s1600/Twin+Temple.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="959" data-original-width="960" height="319" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgvXnWbN2obwwsD98Z9Dei9MTsDvq4fLmo1roAcWu7zSmfSj-fbWRdaWPZ082u4yKcHIDPvfLmUFp-BAnkWetf-rIw9SR3mxCmu1BaYXbhEK-usKClH1Y_Zmg_ieAhW-WSKvc3js1puy533/s320/Twin+Temple.jpg" width="320" /></a></div>
<h2>
</h2>
<h2>
Il mondo è bello perché è
vario, specialmente se il mondo in questione è quello dello show-biz. Ogni
artista deve cercare di arrivare al grande pubblico e in tempi di
sovraesposizione da web e social, il compito non è certo semplice.</h2>
<div class="Standard">
<o:p></o:p></div>
<div class="Standard">
<br /></div>
<div class="Standard">
<br /></div>
<div class="Standard">
<iframe allow="accelerometer; autoplay; encrypted-media; gyroscope; picture-in-picture" allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="https://www.youtube.com/embed/GofYbKgbwnc" width="560"></iframe>
Sei una bella ragazza e canti
meglio di Amy Winehouse quando decideva di cantare sul serio e non di
gigioneggiare strafatta sul palco di qualche club? Hai alle spalle una band coi
fiocchi ma la tua musica suonava un filo datata già negli anni ’60?<o:p></o:p></div>
<div class="Standard">
Queste, presumibilmente, sono
le domande che hanno guidato Alexandra e Zachary James nel creare il loro
progetto dei <b>Twin Temple</b>. E non hanno trovato di meglio che infarcire la loro
proposta, un robusto <b><i>doo-woop </i></b>venato di blues, soul e r&b dei tempi d’oro,
di immagini e rituali satanisti; anch’essi, in verità, un po’ datati, se è vero
che ormai cinquant’anni sono passati dalle stragi di <b>Manson</b> e da quando dei
ragazzotti inglesi, dopo aver visto un film di <b>Mario Bava</b>, davano vita ai <b>Black
Sabbath</b>.<o:p></o:p><br />
<br />
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjckzb66Qcgj6FylF7ktEnilswxsLhNj9uC2VJSE3m9452uriSoOA2VzbyqdaN_vXjS3J_GI5A7RslMl4rmOeVm9tT4UjcFNfJiYx4jhOyno92VQrmjJgjfYkwMvjZFw9XCXIqTwnaY9pNI/s1600/Twin+Temple1.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="540" data-original-width="960" height="180" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjckzb66Qcgj6FylF7ktEnilswxsLhNj9uC2VJSE3m9452uriSoOA2VzbyqdaN_vXjS3J_GI5A7RslMl4rmOeVm9tT4UjcFNfJiYx4jhOyno92VQrmjJgjfYkwMvjZFw9XCXIqTwnaY9pNI/s320/Twin+Temple1.jpg" width="320" /></a></div>
<br />
<br /></div>
<div class="Standard">
Quello che conta, però, è che
grazie o meno a Satana, possiamo ascoltare uno dei dischi più belli e
sorprendenti dell’anno, il debutto dei <b>Twin Temple</b>.<o:p></o:p></div>
<div class="Standard">
Il suono è talmente credibile
che sembra quasi di trovarsi di fronte a un ritrovamento di un LP originale dei
favolosi sixties. La voce di <b>Alexandra James</b> è davvero quanto di più adatto,
pastoso ed efficace si possa immaginare per il genere scelto, sebbene a volte
si soffermi troppo a citare la <b>Winehouse</b>. E questo non è un bene, ma solo
perché Alexandra non ha nulla da invidiare alla grande Amy, avendo una voce
ancora più black e potente, che ricorda forse più una <b>Shirley Bassey</b>. Gli
arrangiamenti, con tanto di fiati e coretti doo-woop, farebbero la gioia di
<b>Quentin Tarantino</b> e le melodie omaggiano ora <b>Buddy Holly</b>, ora <b>Paul Anka</b>, ma
anche il blues più satanico, quello di <b><a href="https://alrartblog.blogspot.com/2009/12/altre-forme-di-blues-i-put-spell-on-you.html" target="_blank">Screamin Jay Hawkins</a></b>, con cui
condividono anche le grottesche sceneggiate live.<br />
<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiNrXZXT3YBlpdq-508XGg8H731lN6S4cEQ3nHRARnLzEjHpiLcU-evDFI5JlzWANNCpOwz3pvR-h2Q1apFo8sX5RC7IW-VJFWNzn5WQXFdNQGFk_KoquBEo9cym36FO70HBIgcPBOYMT2u/s1600/Twin+Temple3.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="960" data-original-width="767" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiNrXZXT3YBlpdq-508XGg8H731lN6S4cEQ3nHRARnLzEjHpiLcU-evDFI5JlzWANNCpOwz3pvR-h2Q1apFo8sX5RC7IW-VJFWNzn5WQXFdNQGFk_KoquBEo9cym36FO70HBIgcPBOYMT2u/s320/Twin+Temple3.jpg" width="255" /></a></div>
<br />
<br />
I pezzi che vi consiglio di
mettere seduta stante nella vostra playlist sono <b><i>Sex Magick</i></b>, con tanto di video
che un tempo avrebbe scandalizzato i più. La voce di Alexandra James qui è
talmente potente da saturare il suono del microfono, ma lei e i suoi Twin
Temple danno il meglio anche nella successiva <b><i>I Know How To Hex You</i></b> e nella
portentosa <b><i>I’m Wicked</i></b>, dove si stenta davvero a credere che a cantare non sia
Shirley Bassey. Gli altri titoli che vi consiglio non fanno certo dubitare
delle intenzioni di questi simpatici adoratori del maligno – come il fatto di
stampare <b>666 copie </b>in vinile, nell’originale autoproduzione – e sono <b><i>The Devil,
Lucifer My Love, Santa Muerte </i></b>e <b><i>Let’s Hang Together.</i></b> Titoli che fanno capire
come anche un po’ di autoironia – quanto mai salutare in questo caso – permei
tutta la situazione. Gli altri pezzi sono leggermente inferiori, ma nel
complesso il disco dei Twin Temple si fa ascoltare dall’inizio alla fine senza
cali di tensione e senza annoiare.<o:p></o:p></div>
<div class="Standard">
Come direbbe <b>Martin Mystere:
“Diavoli dell’inferno, che disco!”</b><o:p></o:p></div>
<div class="Standard">
<br /></div>
<div class="Standard">
<b>Voto: 9</b><span style="font-size: 14pt;"><o:p></o:p></span><br />
<b><br /></b></div>
<br />
<div style="text-align: center;">
<iframe allow="encrypted-media" allowtransparency="true" frameborder="0" height="380" src="https://open.spotify.com/embed/album/0nkXvG0RNnLT82cDk0jU1J" width="300"></iframe></div>
Andrea La Roverehttp://www.blogger.com/profile/06660947487001818837noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7255051603608876842.post-74927758617591077982019-04-13T12:02:00.000+02:002019-04-13T12:06:27.536+02:00John Mayall - Nobody Told Me (2019) Recensione<br />
<h2>
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<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjlyvPlCBGZnGvvmLMVDasrSzTQmFbwx8gV1xKvv1g1Ruib9FNXzPWEm0x2k3FAC2CrrWv87HbGiIuXYEgAuQ3PUcDd0uiCm6Kl3y0dFSB7oBbiFJft1m2OZFtOHG81c-yhoXcKJhVHf9CP/s1600/John+Mayall.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="960" data-original-width="960" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjlyvPlCBGZnGvvmLMVDasrSzTQmFbwx8gV1xKvv1g1Ruib9FNXzPWEm0x2k3FAC2CrrWv87HbGiIuXYEgAuQ3PUcDd0uiCm6Kl3y0dFSB7oBbiFJft1m2OZFtOHG81c-yhoXcKJhVHf9CP/s320/John+Mayall.jpg" width="320" /></a></div>
<h2>
</h2>
<h2>
John
Mayall ha 85 anni e una vita passata a suonare il blues, in studio, fuori e
ovunque ne avesse occasione. La sua fama è sempre stata quella dello svezzatore
di talenti – micidiale la triade di Bluesbreakers degli albori, Clapton, Green,
Taylor – eppure <i>Old John</i> è invecchiato molto meglio dei suoi pupilli.</h2>
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<o:p></o:p></div>
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<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
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<iframe allow="accelerometer; autoplay; encrypted-media; gyroscope; picture-in-picture" allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="https://www.youtube.com/embed/HoaPDWVAV6E" width="560"></iframe>
Già, perché Mayall è del 1933, quindi era già da giovane vecchio, in confronto ai
pupilli, di una generazione più giovani.<o:p></o:p></div>
</div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjRvQOsl0II91wpqcOn9LHmOCJqfTKJWhzCqeK6hAayULIgKu-KGURYt0VIc9868kjBrDoaQIH6utj4okw4Cgs5LbfNoJ-t-diTeYUoMqXCMoDBgVUslOWZylaAUyWecxm7bxh-RIi-ZPMu/s1600/John+Mayall2.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="824" data-original-width="960" height="274" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjRvQOsl0II91wpqcOn9LHmOCJqfTKJWhzCqeK6hAayULIgKu-KGURYt0VIc9868kjBrDoaQIH6utj4okw4Cgs5LbfNoJ-t-diTeYUoMqXCMoDBgVUslOWZylaAUyWecxm7bxh-RIi-ZPMu/s320/John+Mayall2.jpg" width="320" /></a></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
E
insomma, siamo nel 2019 a parlare dell’ennesima nuova uscita – <b><i>Nobody Told Me </i></b>–
e dell’ennesimo tour, che in questi giorni ha toccato l’Italia; e questo
perché? In definitiva Mayall, musicista seminale, di irripetibile importanza
per aver gettato le basi del <b><i>british blues</i></b> e <b>dell’hard rock inglese</b>, ha smesso
di aver qualcosa di nuovo da dire probabilmente dal <b>1972</b>, ovvero dal bellissimo
<b><i>Jazz Blues Fusion</i></b>. Ne parliamo ancora perché la musica di Mayall è il blues,
quello vero, non quello rimasticato di uno Zucchero o del Clapton più recente;
una musica vecchia per definizione e sempre uguale a sé stessa. Ma soprattutto
perché John Mayall suona e canta ancora da Dio, questo mentre il Clapton delle
ultime uscite è più che trascurabile, Peter Green si è giocato la lucidità
dandola in pasto all’LSD – come fece Syd Barrett – già cinquant’anni fa e Mick
Taylor, dopo le lusinghe dei Rolling Stones, è finito disperso.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhByjrGIidb1p1a-h4on1-aaftO1sJ0sCIAX7ODP06PunmjSHLMMza-r2mfw2IjYWldQhscwUdgd1kr3fXGpqU2OY2wnAsmjNjECYSFIJMbp21XalM9tvqA8XIaC_xcRStrwA_Pk88E5cPt/s1600/John+Mayall1.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="859" data-original-width="683" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhByjrGIidb1p1a-h4on1-aaftO1sJ0sCIAX7ODP06PunmjSHLMMza-r2mfw2IjYWldQhscwUdgd1kr3fXGpqU2OY2wnAsmjNjECYSFIJMbp21XalM9tvqA8XIaC_xcRStrwA_Pk88E5cPt/s320/John+Mayall1.jpg" width="254" /></a></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<i>Nobody
Told Me</i> è una sorta di <i><b>summa</b></i> dei tanti stili blues frequentati dal nostro in
decenni di musica. Dal funk à la <b>Albert King</b> di <b><i>What I Have Done</i></b>, con la
chitarra <i>on fire</i> ma un po’ stucchevole di <b>Joe Bonamassa </b>– uno nato con
vent’anni di ritardo per fare il <i>guitar hero </i>– al ciondolante <i>slow </i><b><i>Evil and
Here to Stay</i></b>, in cui fa suonare il blues ad <b>Alex Lifeson </b>dei Rush. Gli altri
ospiti sono <b>Larry McCray</b>, chitarrista nero autoctono delle zone dove il blues
nacque, ma mai così blues come nei pezzi suonati col maestro bianco, <b>Todd
Rundgren</b>,<b> Carolyn Wonderland</b> – nel <b><i>lentone </i></b>d’ordinanza che dà il titolo alla
raccolta – e <b>Steven Van Zandt</b>, quel Little Steven che per tanto tempo a
contribuito a incendiare i palchi con <b>Bruce Springsteen</b>.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Ascoltare
John Mayall, per l’appassionato della Musica del Diavolo, è come tornare a
casa; gli altri si astengano senza rimpianti.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<b>Voto:
6.5</b><o:p></o:p></div>
<br />
<div style="text-align: center;">
<iframe allow="encrypted-media" allowtransparency="true" frameborder="0" height="380" src="https://open.spotify.com/embed/album/6DpjekLZAlnbHIKSvceO0Q" width="300"></iframe></div>
Andrea La Roverehttp://www.blogger.com/profile/06660947487001818837noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7255051603608876842.post-65409851869962030882019-04-10T20:38:00.002+02:002019-04-10T20:38:50.537+02:00Fwora Jorgensen - Le Notti Bianche (2019) Recensione<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg39ZqLk_7XfOVS6U_OrcPxr1O8lCUoqeInhjJ4xHdvMS1MONeRcSW17Cq6UrGwLSma4qfMa5RbnUB5sLMYn3daxA-_NYHmRtUWFg8vHMrxdm7HjlzGdaeCngPfJLKUGYDrde_DKhjOV75F/s1600/Fwora2.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="958" data-original-width="960" height="319" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg39ZqLk_7XfOVS6U_OrcPxr1O8lCUoqeInhjJ4xHdvMS1MONeRcSW17Cq6UrGwLSma4qfMa5RbnUB5sLMYn3daxA-_NYHmRtUWFg8vHMrxdm7HjlzGdaeCngPfJLKUGYDrde_DKhjOV75F/s320/Fwora2.jpg" width="320" /></a></div>
<h2>
</h2>
<h2>
Imparate
questo nome: <b>Fwora Jorgensen</b>.</h2>
<div class="MsoNormal">
<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<div style="text-align: center;">
<br /></div>
Provate
a pronunciarlo fino a risultare un minimo credibili.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Ok,
ora siete pronti e la prossima volta che sentirete qualcuno lamentarsi che non
esistono più le belle canzoni del tempo che fu e che dopo De Andrè, De Gregori
e Battisti la musica d’autore è morta, e che oggi in Italia c’è solo la trap o
le melodie da festival, prendete fiato e urlategli in faccia: “Fwora
Jorgensen!”<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<i><b>Le
notti bianche </b></i>è fuori da un po’ per <b>Goodfellas</b> ed è il debutto per <b>Mirco
Mariani </b>nelle vesti di cantautore finlandese per caso, ispirato al cinema –
bellissimo, per chi scrive – di <b>Aki Kaurismaki</b>. In realtà il nome che sta
dietro il nordico moniker, stava già dietro ai dischi a nome Saluti da Saturno,
oltre che, come collaboratore, in una serie pressoché infinita di
collaborazioni; citiamo Capossela e Pacifico.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi_PUbitSGiYbiNLuKGMokFHQ_9UUfBF-Ca3UdcKCn_IEgtN6M03kTMSwz6-JEDM3eGMjxKhXxhASr6O7DtJ9MlJNs6K7ZjMWeAai1knu7QFG5mbkEpReKBEbv5fwzhaXSO4Cy3Y3lttqAs/s1600/Fwora1.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="960" data-original-width="592" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi_PUbitSGiYbiNLuKGMokFHQ_9UUfBF-Ca3UdcKCn_IEgtN6M03kTMSwz6-JEDM3eGMjxKhXxhASr6O7DtJ9MlJNs6K7ZjMWeAai1knu7QFG5mbkEpReKBEbv5fwzhaXSO4Cy3Y3lttqAs/s320/Fwora1.jpg" width="197" /></a></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
Effettivamente
le affinità col cinema di Kaurismaki ci sono, e non poche. Un suono che procede
più per sottrazioni e che evoca immagini cinematografiche di cui spesso il
senso letterale sfugge, ma lasciando una forte suggestione; come se tutti ci
fossimo trovati negli stati d’animo che Fwora – non – decrive nei testi. Gli
arrangiamenti sono delicati ma, a loro modo, perfetti, con tanto di <b>theremin
</b>che affiora qua e là. Fatti non certo per accarezzare lo svogliato orecchio
dell’ascoltatore radiofonico ma più per solleticare un sottile gioco di rimandi
e citazioni per i fruitori più smaliziati. Eppure le canzoni di Fwora – e
sottolineiamo canzoni, perché di questo, vivaddio, si tratta – sono di quelle
che arrivano non solo al cervello, e per di più, spesso al primo ascolto.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Eccellenti
le collaborazioni, da <b>Mauro Ermanno Giovanardi </b>a <b>Francesco Bianconi</b> che – anche
fuori dai <b>Baustelle</b> – non sbaglia un colpo.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh41p0ReV6_rmTEoC2R7EWKxzFTZ9JP7HwAQuGbVHUT9NcSA0p7ZvwgoxEEBd37558tvfgLuwWvtSaWyQnsePkGYaRdpQzri2SF-C7WuIjMFYT7g0TxydvJt3F6S8PQHx9Df_3Ef_UhTjO0/s1600/Fwora.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="960" data-original-width="669" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh41p0ReV6_rmTEoC2R7EWKxzFTZ9JP7HwAQuGbVHUT9NcSA0p7ZvwgoxEEBd37558tvfgLuwWvtSaWyQnsePkGYaRdpQzri2SF-C7WuIjMFYT7g0TxydvJt3F6S8PQHx9Df_3Ef_UhTjO0/s320/Fwora.jpg" width="223" /></a></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
Vi
segnalo i pezzi per me più meritevoli, e poi dritti ad ascoltarlo e a
diffonderlo.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
Innanzitutto
i due pezzi con Bianconi,<b><i> Le notti bianche</i></b> e<b><i> Cavallo Bianco</i></b>, dai tratti
<i>deandreiani</i>. <b><i>All’ombra del gabbiano</i></b> con atmosfere tra <b>Capossela, Calexico </b>e
alcuni arrangiamenti anni ’60. <b><i>Come foglie</i></b>, eterea collaborazione col maestro
Mitchell Froom, la bella <b><i>Mille di Massimo</i></b>, che ricorda l’<b><i>Albatross</i></b> di Peter
Green nell’incedere e infine la geniale riproposizione del classico trash disco
<b><i>Gam Gam</i></b>, che farà versare una lacrimuccia di nostalgia a chi ha l’età giusta
per farlo.<o:p></o:p></div>
<div class="MsoNormal">
<br /></div>
<div class="MsoNormal">
<b>Voto:
7</b><span style="font-size: 14pt;"><o:p></o:p></span></div>
<br />
<div style="text-align: center;">
<iframe allow="encrypted-media" allowtransparency="true" frameborder="0" height="380" src="https://open.spotify.com/embed/album/2urWrZLIY0qG86C9uhvuvg" width="300"></iframe></div>
Andrea La Roverehttp://www.blogger.com/profile/06660947487001818837noreply@blogger.com0